Il Tribunale dell’Unione Europea ha ribadito quanto già espresso dall’EUIPO, respingendo la richiesta di iscrizione di un marchio evocante la marijuana. Tale segno distintivo, infatti, sarebbe contrario all’ordine pubblico.
L’Ufficio dell'Unione europea per la proprietà intellettuale aveva ritenuto che «la rappresentazione stilizzata della foglia di cannabis costituisse il simbolo mediatico della marijuana». Il disegno, però, recava altri due elementi rilevanti: 1) recava la parola “Amsterdam”; 2) riportava la parola “store”. Il riferimento alla città olandese, ove è nota la presenza di punti vendita della sostanza stupefacente in commento, nonché quello allo “store”, potrebbero condizionare il consumatore inducendolo ad «aspettarsi che i prodotti e i servizi commercializzati con tale segno corrispondano a quelli offerti da un negozio di sostanze stupefacenti». Il Tribunale, su queste basi, ha deciso che «nel caso di specie, è per la combinazione di tali diversi elementi che il segno in questione attira l’attenzione dei consumatori, che non sono necessariamente in possesso di conoscenze scientifiche o tecniche precise sulla cannabis quale sostanza stupefacente, illegale in numerosi Paesi dell’Unione» evidenziando altresì che «allo stato attuale del diritto il suo consumo e il suo utilizzo oltre una certa soglia rimangono illegali nella maggior parte degli Stati membri. In questi ultimi, quindi, la lotta alla diffusione della sostanza stupefacente derivata dalla cannabis risponde ad un obiettivo di sanità pubblica, volto a combatterne gli effetti nocivi». La legge 2 dicembre 2016 n. 242 stabilisce la liceità della coltivazione della Cannabis sativa L (la c.d. “Cannabis light”) per finalità espresse e tassative tra le quali non è prevista la commercializzazione dei prodotti di tale coltivazione costituiti dalle infiorescenze (marijuana) e dalla resina (hashish); pertanto, le condotte di detenzione e di cessione di tali derivati continuano ad essere sottoposte alla disciplina prevista dal d.P.R. n. 309/90, sempre che dette sostanze presentino un effetto drogante rilevabile (Cassazione penale, sezione VI, sentenza 17 dicembre 2018, n. 56737). Il fatto: sequestro di cannabis lightIl Tribunale del riesame, nel confermare il decreto del P.M. di convalida del sequestro probatorio, in relazione al reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope, aggravato ai sensi dell’art. 80 del d.P.R. n. 309 del 1990, con riferimento alle sostanze stupefacenti (marijuana e hashish) rinvenute dalla polizia giudiziaria nei locali di un’impresa. Avverso tale ordinanza, la società proponeva ricorso per cassazione, sostenendo l’esclusione del caso di specie dell’ambito di applicazione del d.P.R. menzionato, in quanto le sostanze derivavano dalla coltivazione della c.d. “Cannabis Sativa” o “Cannabis light”, consentita ai sensi della L. 242/2016. L’impresa, in sostanza, deduceva l’assenza del fumus del reato ipotizzato. La decisione della Corte: legittimo il sequestro della cannabis lightLa Corte ha rigettato il ricorso per i motivi che si elencano di seguito.
Tra le indicazioni obbligatorie di cui all'art. 9 del reg. 1169/2011 figura l'indicazione della quantità di taluni ingredienti o categorie di ingredienti. Il regolamento 1169/2011 prescrive, all’art. 9, l’elenco delle indicazioni obbligatorie da inserire in etichetta.
Tra queste, la lettera d) contempla la quantità di taluni ingredienti o categorie di ingredienti. Tale indicazione, che corrisponde alla quantità dell’ingrediente o degli ingredienti al momento della loro utilizzazione, deve essere espressa in percentuale e deve figurare nella denominazione dell’alimento o immediatamente accanto ad essa, o nella lista degli ingredienti in rapporto con l’ingrediente o la categoria di ingredienti in questione. L’indicazione della quantità di ingredienti o categorie di ingredienti è richiesta quando questi: 1.figurano nella denominazione dell’alimento o, generalmente, sono associati a questa; 2.sono evidenziati nell’etichetta tramite parole, immagini o rappresentazioni grafiche; Entrambe le disposizioni appena citate non trovano applicazione nel caso di ingredienti o di categorie di ingredienti recanti l’indicazione «con edulcorante(i)» o «con zucchero(i) ed edulcorante(i)» quando la denominazione dell’alimento è accompagnata da tale indicazione, nonché nel caso di vitamine o di sali minerali aggiunti, quando tali sostanze devono essere oggetto di una dichiarazione nutrizionale. 3.sono essenziali per caratterizzare quel determinato alimento e distinguerlo dai prodotti con cui potrebbe essere confuso. Tale indicazione non è richiesta nel caso in cui la quantità dell’ingrediente o della categoria di ingredienti: 1.figuri nell’etichetta ai sensi delle disposizioni UE; 2.sia adoperato in piccole dosi come aromatizzante; 3.pur figurando nella denominazione dell’alimento non sia in grado di condizionare la scelta del consumatore; 4.sia determinato in modo preciso da specifiche disposizioni dell’Unione; 5.nei casi di prodotti ortofrutticoli o funghi utilizzati in proporzioni suscettibili di variare o in una miscela come ingredienti di un alimento, quando nessuno predomina in termini di peso sull’altro in modo significativo; 6.per le miscele di spezie o piante aromatiche, nessuna delle quali predomina in peso in modo significativo. Le etichette costituiscono, senza dubbio, il modo principale che le aziende hanno per comunicare con i consumatori. Un veicolo fondamentale di informazioni che, nel corso del tempo, è stato anche soggetto e norme sempre più stringenti. Nel mondo del vino, in particolare, una corretta etichettatura non può che passare dall’indicazione dei c.d. solfiti.
Cosa sono i solfiti? Con il termine “solfiti” si intende l’anidride solforosa aggiunta al vino. Questa, sotto forma di metabisolfito di potassio ha, infatti, un ruolo indispensabile: disinfetta e stabilizza il vino, inibendo l’azione dei microorganismi che potrebbero deteriorare il prodotto e agendo su alcuni enzimi che, sotto l’azione dell’ossigeno, generano un deterioramento delle caratteristiche organolettiche e, quindi, del sapore del vino. In alcuni casi alcuni ceppi di lieviti naturalmente presenti nel mosto possono produrre anidride solforosa durante la fermentazione alcolica ma, solitamente, questa viene aggiunta durante il processo di vinificazione. Cosa dicono le norme? In merito, il riferimento principale, come sempre avviene in materia di etichettatura, è il Reg. 1169/2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori. Questo, all’art. 9(1) prevede l’obbligo di indicare in etichetta “…c) qualsiasi ingrediente o coadiuvante tecnologico elencato nell’allegato II o derivato da una sostanza o un prodotto elencato in detto allegato che provochi allergie o intolleranze usato nella fabbricazione o nella preparazione di un alimento e ancora presente nel prodotto finito, anche se in forma alterata”. L’allegato II, in particolare, nell’elenco degli ingredienti o coadiuvanti tecnologici da indicare obbligatoriamente in etichetta, inserisce proprio l’anidride solforosa e i solfiti se in concentrazione superiore a 10 mg/kg o 10 mg/litro. Lo stesso, inoltre, precisa che in mancanza di un elenco degli ingredienti tale indicazione deve essere riportata con il termine “contiene” seguito dalla denominazione della sostanza o del prodotto. Cosa significa, quindi, “sena solfiti aggiunti”? Tale indicazione può essere riportata sulle etichette di vino ma solo nel caso in cui il vino contenga solo solfiti formatisi naturalmente in seguito alla fermentazione e, comunque, in concentrazioni non superiori a 10 mg/kg o 10 mg/litro a patto, ovviamente, di non trarre in errore il consumatore. Presto il divieto di commercializzazione di prodotti di plastica monouso L’UE vieterà presto i prodotti di plastica monouso come cotton fioc, stoviglie e cannucce.
Le norme rientrerebbero nell'ambito della strategia UE per ridurre i rifiuti plastici. Gli elementi rilevanti della direttiva I prodotti di plastica monouso, infatti, rappresentano il 70% dei rifiuti marini e inquinano spiagge e mari di tutta Europa. Il progetto di direttiva prevede l’obbligo per gli stati di raccogliere, entro il 2025, il 90% delle bottiglie di plastica monouso per bevande e vietare la vendita di cotton fioc, stoviglie, cannucce, agitatori per bevande e bastoncini in plastica per palloncini gonfiati con elio. Questi gli elementi rilevanti del progetto di direttiva:
Le nuove regole, quindi, introdurranno:
Le sanzioni introdotte dal D.Lgs. 231/2017 per le violazioni del Reg. 1169/2011 Lo scorso 9 maggio è entrato in vigore il D.Lgs. 231/2017 che sanziona violazioni e irregolarità relative al Regolamento UE 1169/2011.
In questo post si analizzeranno, in particolare, le norme relative agli allergeni. Cosa sono gli allergeni? Si definiscono allergeni quegli ingredienti o sostanze che, se ingeriti, possono determinare allergie e/o intolleranze nei consumatori. Il regolamento 1169/2011, quindi, si preoccupa di indicare tassativamente questi alimenti. In particolare, vengono menzionati:
Dove trovare le indicazioni In un’attività di somministrazione di cibo e bevande, dunque, deve essere possibile trovare l’indicazione di tali alimenti direttamente sul menù ovvero su un foglio illustrativo apposito. L’ulteriore alternativa è quella di avere all’interno dello staff un addetto specializzato sugli allergeni. Tuttavia è opportuno evidenziare che l’obbligo di indicare la presenza degli allergeni non sussiste nei casi in cui la denominazione dell’alimento faccia chiaro riferimento alla sostanza o al prodotto in questione. Le sanzioni Il D.Lgs. 231/2017 prevede multe da € 3.000 a € 24.000 per agriturismi, ristoranti, bar, mense e, in generale, per ogni esercizio di somministrazione di alimenti e bevande che omette di indicare per iscritto, in modo chiaro e immediato, la lista di allergeni presenti negli alimenti somministrati e/o venduti. Lo stesso decreto, tuttavia, prevede la possilità di ridurre la sanzione pecuniaria fino ad un terzo per le microimprese. Definizioni, caratteristiche e autorizzazione ex Reg. 1829/2003 nell'articolo di Elio Palumbieri per Studio Cataldi:
https://www.studiocataldi.it/articoli/30348-ogm-cosa-sono-e-come-sono-disciplinati.asp Alla fine è arrivata la bocciatura, da parte dell’Unione Europea, del D.lgs. 145/2017 con il quale è stato introdotto l’obbligo per i produttori alimentari di indicare lo stabilimento di produzione in etichetta.
La lettera della Commissione che sancisce tale bocciatura, datata 30 gennaio 2018 ma diffusa dal sito GIFT solo in questi giorni, non lascia spazio a dubbi: “La notifica è irricevibile e la Commissione non ne analizzerà quindi il contenuto”. Il regolamento 1169/2011 Tutto parte dal regolamento 1169/2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori il quale aveva abolito il decreto 109/1992 che aveva introdotto nel nostro mercato l’obbligo di indicare in etichetta lo stabilimento di produzione. Tuttavia, proprio con il D.lgs. 145/2017, tale obbligo era stato reintrodotto. In questi casi, però, i regolamento europei prevedono la necessità di notificare alla Commissione UE la nuova norma al fine di analizzarne il contenuto e la sua compatibilità con le disposizioni europee. Ebbene, il rigetto della notifica è avvenuto perché il nostro esecutivo ha usufruito di quanto disposto dall’art. 114 par. 4 del TFUE (il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea), il quale prevede che “allorché, dopo l'adozione di una misura di armonizzazione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio, da parte del Consiglio o da parte della Commissione, uno Stato membro ritenga necessario mantenere disposizioni nazionali giustificate da esigenze importanti di cui all'articolo 36 o relative alla protezione dell'ambiente o dell'ambiente di lavoro, esso notifica tali disposizioni alla Commissione precisando i motivi del mantenimento delle stesse”. In sostanza, il nostro paese ha sostenuto che la norma del 2017 fosse identica a quella del 1992 che, sostanzialmente, quest’ultima sarebbe rimasta in vigore. Come detto, la Commissione ha lapidariamente rigettato l’argomentazione. Cosa succede adesso Il rischio, evidentissimo, è che si crei una disparità di trattamento tra i produttori. Questi, infatti, hanno predisposto e stanno stampando etichette conformi al D.lgs 145/2017 ignari, fino ad oggi, del rigetto della Commissione UE. Anche le autorità competenti si trovano nella situazione di dover far rispettare una norma che, invece, andrebbe disapplicata. Tutto ciò senza considerare che, in ogni caso, chi produce all’estero non è tenuto a rispettare la norma italiana anche se vende i propri alimenti nel nostro mercato. Occorre, quindi, rimanere in attesa di ulteriori sviluppi anche considerando l’ottimismo su una positiva chiusura della faccenda che trapela dal Ministero. Il consiglio Intanto, il consiglio alle aziende produttrici è quello di rispettare il D.lgs. 145/2017 e tenere sempre presente che l’indicazione dello stabilimento di origine potrebbe comunque comparire in etichetta quale elemento facoltativo e, in alcuni casi, recare anche un legittimo vantaggio competitivo. La riforma UE sul biologico pone non pochi problemi. E l’Italia vota contro Non è tutto biologico quello che luccica4/30/2018
0 Commenti La riforma UE sul biologico pone non pochi problemi. E l’Italia vota contro di Elio Palumbieri In apertura di questo post potrebbe essere utile un disclaimer: non esprimerò un opinione sul biologico. La mia idea è la seguente: il bio, giusto o sbagliato che sia, dev’essere per il consumatore una certezza e non mi pare che la riforma vada in questa direzione. Su questo sì, proverò a dire la mia. Procediamo, quindi, per gradi. Dopo quattro anni di negoziati il Parlamento europeo ha approvato il testo di riforma delle regole dell’agricoltura bio con 466 voti a favore, 124 contrari e 50 assenti. Ora il Consiglio UE dovrà formalmente approvare la riforma che entrerà in vigore dal 1 gennaio 2021. I contenuti della riforma Il testo, che mira a garantire che solo i prodotti biologici di qualità siano importati nell’Unione europea, prevede una serie di modifiche all’attuale assetto normativo. In particolare:
Alle disposizioni appena menzionate, tuttavia, si contrappongono numerose deroghe. Le principali sono le seguenti:
Il nostro Paese è, da sempre, tra i maggiori sostenitori di una politica del biologico più severa. In particolare, infatti, del testo di riforma non è piaciuta la possibilità per paesi come l’Italia, di imporre regole più severe abbinata al divieto di impedire la commercializzazione nel proprio mercato di prodotti di altri Paesi europei che hanno deciso di non irrigidire regole e disposizioni. Insomma, i prodotti biologici prodotti in Italia potranno anche essere particolarmente salubri ma nei nostri supermercati troveremo prodotti provenienti da altri paesi la cui produzione è sottoposta a regole meno stringenti. il post per Studio Cataldi di Elio Palumbieri
Ormai da qualche tempo di sente parlare della necessità di tutelare e salvaguardare le api. D’altronde la loro minaccia non è una novità. Sul punto si era già espressa l’EFSA (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) la quale aveva confermato i rischi per le api derivanti dall’impiego di tre pesticidi della classe dei neonicotinoidi.
Cosa sono i neonicotinoidi Si tratta della alternativa al DDT derivante dalla nicotina e spruzzata su foglie, messa nel suolo in forma granulare o usata nel trattamento dei semi. Tali pesticidi e, in particolare, i principi attivi del clothianidin, imidacloprid e thiamethoxam, possono in effetti nuocere alla salute delle api da miele e di quelle selvatiche e solitarie. Il parere dell’Autorità era stato chiesto al fine di permettere agli Stati e alla Commissione UE di esprimersi sul divieto di tali principi attivi dopo che, nel 2013, erano state imposte alcune restrizioni consistenti nel divieto per uso esterno limitato, però, ad alcune colture e a determinati periodi dell’anno. Il regolamento Ebbene, nella giornata odierna il Comitato permanente dell’Ue su piante, animali, cibi e mangimi (Paff) ha approvato la proposta della Commissione europea volta a proibire l’uso esterno nel territorio dell’Unione a neonicotinoidi. A favore della proposta della Commissione hanno votato 16 Stati membri: Germania, Estonia, Irlanda, Grecia, Spagna, Francia, Cipro, Italia, Lussemburgo, Malta, Olanda, Austria, Svezia, Slovenia, Portogallo e Regno Unito. Contrari alla proposta 4 Paesi: Repubblica ceca, Danimarca, Ungheria e Romania. Astenuti: Bulgaria, Belgio, Croazia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacca, Finlandia. Con questa misura, l’UE pone un freno – pur se limitato – alla moria delle api e degli altri insetti impollinatori, essenziali per la tutela della biodiversità e, di conseguenza, della produzione alimentare. Il regolamento che vieta i tre neonicotinoidi entrerà in vigore entro la fine dell’anno dopo l’adozione formale della Commissione nelle prossime settimane. Nato per rispettare i dettami della religione ebraica oggi viene percepito come garanzia di salubrità photo credit: http://www.finedininglovers.i Non tutti hanno sentito parlare di Kosher ma qualcuno avrà sicuramente visto la puntata del noto programma Masterchef che ha imposto ai propri concorrenti di cucinare, in un’occassione, secondo le regole Kosher. Ebbene, letteralmente, Kosher significa corretto, adatto, appropriato e con questo termine si indicano le regole della legge ebraica relative al cibo.
Il mercato Koscher, tuttavia, vanta una crescita particolarmente alta, specie in paesi come gli Stati Uniti, perché le regole di produzione e commercializzazione garantiscono una particolare cura dell’origine dei prodotti e aumentano la percezione di salubrità. Per questo il consumo non avviene solo per motivi religiosi e, infatti, stando ad una ricerca del gruppo Mintel, solo il 15% dei chi compra questi prodotti lo fa per motivi religiosi. Molte catene, tra cui Wal-Mart, Costco, FreshDirect e Trader Joe’s, stanno prestando attenzione ai prodotti Kosher, particolarmente ricercati anche da vegetariani e vegani. Negli States, il settore ha toccato i 200 miliardi di dollari di fatturato occupando un terzo del mercato degli alimenti confezionati (circa 250mila tra alimenti e bevande). I requisiti fondamentali Kosher sono molti, eccone alcuni: - Divieto di mescolare carne e latticini nello stesso pasto: la Torah raccomanda di non cuocere “il capretto nel latte di sua madre”. Per questo è vietato cucinare contemporaneamente latte e derivati con carne di qualunque animale - E’ consentito il consumo di animali ruminanti e con lo “zoccolo fesso” ovvero spaccato in due parti (pecora, capra, mucca, vitello) - Il rituale della macellazione deve essere obbligatoriamente tenuto da un Rabbino con la specifica competenza per farla - Sussiste, inoltre, il divieto assoluto di consumare il sangue dal quale è escluso il sangue dei pesci permessi (quelli con pinne e squame cme merluzzo, sogliola, carpa, luccio, muggine, salmone). - Non possono essere consumate alcune parti di grasso - Particolarmente complessa, invece, è la produzione di vino. Questo, infatti, per essere definito Kosher deve rispettare tutte le regole della Kashernut nella coltura della vite e nella vinificazione. In Italia, ad oggi, sono circa 170 le aziende certificate kosher; tra queste: Barilla, Lavazza, Bonomelli, Ferrarelle. Stando ad una ricerca dell’osservatorio Immagino della Nielsen, l’acquisto dei prodotti Kosher nel nostro paese è cresciuto nel 2016 del 7,8%. Per le aziende italiane questa certificazione potrebbe essere d’aiuto nel conquistare nuovi mercati. As with many aspects of the United States legal framework, the history of food regulation in the US is a story of push and pull between state and federal powers, all of it often standing on a base of English precedent.
In 1202, King John of England proclaimed the first English food law, the Assize of Bread. This law prohibited the adulteration of bread with such ingredients as ground peas or beans, and established weights, quality standards, and prices of beer and bread sold in England. In 1646 the Massachusetts Bay Colony enacted a law with almost identical wording. While designations might have changed from Colony to State after the American Revolution, the regulation of food was still thought to be a local concern, and there was limited involvement from the fledgling federal government. For any readers unfamiliar with the US legal system, a quick summary of branches and operations may be helpful. The US legal system has three branches: The Legislative branch, the United States Congress, is responsible for creating laws. The Execute branch, the President and a variety of federal agencies, are responsible for implementing and enforcing these laws, directly and through regulatory guidance. The Judicial branch, the courts, resolves legal disputes and enforces the laws. The Federal government has a specific list of powers, and anything that doesn’t fit within this realm is power held by the States. One specific power the US Congress and Federal government have is the ability to regulate anything that is a part of interstate commerce. Federal regulation of food in the US began at its most basic level in 1837, when Henry Leavitt Ellsworth was appointed Commissioner of Patents within Department of State. Ellsworth worked heavily with seeds and plants, and as a result of his interactions with Congressmen, in 1839 Congress established the Agricultural Division within the Patent Office to focus agricultural statistics. In 1849 the Patent Office was transferred to the Department of the Interior, and after several years of debate about the need for a separate department, Abraham Lincoln created the Department of Agriculture in 1862. That same year Lincoln began the Bureau of Chemistry within the Department of Agriculture. From the 1860s through the early 1900s the US saw rapid changes in food technology, from canning to chemical additives that deterred (and sometimes hid) spoilage of the food. The adulteration of food became a very real concern for the average consumer. After extensive food adulteration investigations, the chief chemist of the USDA recommended passage of a national food and drug law that would allow regulation and enforcement by the federal government. This proposal failed, as did roughly 100 bills passed in this 25 year time period. While such inaction may seem unreasonable in hindsight, Congress was not purposely absent on this matter; they simply left the regulation of food to the states and localities. Two examples of affirmative action include the Tea Importation Act, which allowed customs inspection of all tea entering US ports with costs paid by the importer, and the Biologics Control Act, which was passed to ensure the purity and safety of products to prevent disease, and to study chemical preservatives & colors and their effect on health. Perhaps the most significant law during this time was The Oleomargarine Act of 1886, which not only taxed margarine, but heavily taxed margarine colored to look like butter. The courts affirmed this federal regulation in McCray v. United States (1904), 195 U.S. 27. Everything changed in 1906, arguably due to Upton Sinclair’s book, The Jungle. An exposure of the filthy conditions of Chicago slaughterhouses, Sinclair brought to light terrifying practices running rampant in the food trade, including “tuberculosis beef.” The outcry from this book led President Theodore Roosevelt to begin an investigation, resulting in the Neill-Reynolds Report. The findings of the report combined with the outcry from the book led to the quick passage of the Pure Food and Drugs Act of 1906, which prohibited interstate commerce in misbranded and adulterated foods, drinks, and drugs. The Act required that active ingredients be placed on the label of a drug’s packaging, and directed the Bureau of Chemistry to inspect products and refer offenders to prosecutors. The Meat Inspection Act, was passed the same day, and was housed in a different department, now known as the Food Safety and Inspection Service. While often perceived as related, from this day on the fates of food and drugs became inextricably intertwined in the United States. For the next 22 years the Pure Food and Drugs Act allowed the Department of Agriculture, and the courts, to make drastic changes in how the country consumed food. Quickly following amendments and cases prohibited false therapeutic claims, required conspicuous labeling, and banned misleading statements on packaging. The power was not absolute however, as the courts held the government could not ban food additives without showing how the additive caused harm. In 1927 the Bureau of Chemistry was reorganized into two groupings: the Food, Drug, and Insecticide Administration, and the Bureau of Chemistry and Soils; by 1930 the former was renamed the Food and Drug Administration. Within a few years the FDA called for new regulations claiming that the 1906 act was obsolete. In 1937 the Elixir of Sulfanilamide killed 107 persons, dramatizing a need to establish drug safety before marketing, and to revamp the existing frameworks. In 1938 Congress passed the Federal Food, Drugs, and Cosmetic Act, with several new provisions. The FDA now had control of cosmetics and therapeutic devices, set safe tolerances for unavoidable poisonous substances, was authorized to inspect factories, and was authorized to set standards of identity and quality. This Act was the beginning of the FDA we knew today. While specific regulations have grown in a piece-meal matter since the Act was passed, and the FDA’s power has grown through a variety of amendments related to the safety of food and drugs. As of 1988 the FDA is no longer part of the Department of Agriculture, but is a part of the Department of Health and Human Services. The Food Safety and Inspection Service still remains a part of the Department of Agriculture, and both the FDA and FSIS still control and regulate food in the United States. Today, the FSIS has primary responsibility for meat, poultry, and eggs; the FDA is primarily responsible for most other food products. The most meaningful piece of legislation since 1938 was the Food Safety Modernization Act, signed into law by President Barack Obama in 2011. This Act has given the FDA new powers, including the authority to regulate the way foods are grown, harvested, and processed, in addition to a mandatory recall authority for unsafe foods. Governmental oversight breaks the US market into several sectors, and approaches each differently. Consumers—the governmental goal is to educate consumers and provide them information so that they may make informed decisions. Retail and foodservice—while the FDA provides guidance, these sectors are still primarily regulated by state laws and municipal health codes. Processing—primarily regulated by the Federal agencies. Production—the governmental strategy has primarily been one of education so as to create safe agricultural products, but there is increasing direct governmental regulation. Production input—composed of inputs that could directly impact the safety of final products, from pesticides and bovine antibiotics to biotechnology, this sector is extensively regulated by federal law. All of the above is a highlighted background from an increasingly complex regulatory world. As part of an intercontinental collaboration with Studio Legale Palumbieri, expect to see this and posts that get into the nitty-gritty of food laws in the United States and Europe, including the importation of European and Mexican foods into the United States. Questions or ideas? E-mail : Hardeep Grover at [email protected] or Elio Palumbieri at [email protected] For further information see https://tresquire.com & https://www.studiolegalepalumbieri.it/ Le regole UE a tutela della salute dell'uomo Spesso ignoriamo il fatto che sui prodotti alimentari presenti nei nostri mercati possano essere presenti dei residui di fitofarmaci. Ebbene, è così ma non c’è nulla di cui preoccuparsi. Anche in questo caso, come in molti altri, le norme ci vengono in aiuto determinando limiti severi per la presenza di residui di fitofarmaci.
Cosa sono i fitofarmaci? Generalmente vengono associati ai pesticidi. Tecnicamente, però, questo termine è leggermente più ampio rispetto a quello di fitofarmaci, i quali comprendono erbicidi, acaricidi, fungicidi, insetticidi, repellenti e fitoregolatori e vengono utilizzati per mantenere in salute le colture. Come vengono regolati? Sono diverse le norme dell’Unione Europea poste a regolamento delle commercializzazione e delle modalità d’uso dei prodotti fitosanitari. I passaggi affinché questi prodotti possano essere utilizzati sono due: per prima l’EFSA (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) valuta le sostanze contenute nei prodotti e, successivamente, sulla base di tale valutazione, gli Stati membri autorizzano i prodotti a livello nazionale. Come svolge l’EFSA il proprio compito? È evidente, quindi, come in questo processo assuma un ruolo determinante l’EFSA. Questa, infatti, fornisce una consulenza scientifica, effettuando la valutazione del rischio. Tale compito spetta all’unità “pesticidi” dell’EFSA e mira a definire se i prodotti sottoposti a verifica, in normali condizioni d’uso, possano nuocere alla salute dell’uomo o degli animali o, ancora, alle falde acquifere e all’ambiente. L’EFSA, tuttavia, non si limita a svolgere il compito appena descritto ma valuta anche i rischi legati alla presenza di residui di pesticidi negli alimenti trattati con prodotti fitosanitari e redige, annualmente, la relazione sui residui di pesticidi. I livelli massimi di residuo (LMR) Al fine di tutelare la salute dell’uomo, il Regolamento (CE) 396/2005 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 febbraio 2005, regola i livelli massimi di residui di antiparassitari che possono essere presenti nei o sui prodotti alimentari e mangimi di origine vegetale e animale. Il regolamento si applica ai prodotti di origine vegetale o animale o loro parti da utilizzare come alimenti o mangimi freschi, trasformati e/o composti, in o su cui potrebbero essere presenti residui di antiparassitari. Il documento, inoltre, offre una specifica definizione di residui di antiparassitariche vengono identificati come i residui - incluse le sostanza attive, i metaboliti e/o prodotti di degradazione o reazione di sostanze attive attualmente o precedentemente utilizzate in prodotti fitosanitari - che sono presenti nei o sui prodotti, compresi in particolare quelli che possono risultare da un utilizzo in campo fitosanitario, veterinario o quali biocidi. I prodotti di origine vegetale o animale in questione, a partire dal momento in cui sono immessi sul mercato, non devono contenere residui di parassitari il cui tenore superi i cosiddetti LMR (Limiti Massimi di Residuo), ossia la concentrazione massima ammissibile di residui di antiparassitari individuata dal regolamento. I suoi allegati n. II, III e IV, infatti, stabiliscono un limite massimo per ogni categoria di alimento mentre, per quelli non presenti in elenco, si prende in considerazione la soglia dello 0,01mg/kg. Ricapitolando: è vero, è possibile trovare residui di fitofarmaci sugli alimenti. Tuttavia, come visto, le procedure di controllo e le norme europee garantiscono la salute dell'uomo da ogni relativo pericolo. Il modello dell’etichettatura a semaforo perde i primi pezzi. La ricerca, infatti, di una soluzione gradita ai consumatori non ha portato a buoni risultati e Mars ha deciso di abbandonare Coca-Cola, Mondelèz International, Unilever e PepsiCo chiedendo una soluzione europea al problema. In particolare, ad assumere rilevanza per la decisione della multinazionale, è stata la necessità di fare il punto della situazione tramite un Regolamento UE volto all’armonizzazione della materia.
Ad essere particolarmente critica nei confronti dell’etichettatura a semaforo era stata, tra le altre, la ONG foodwatch, un gruppo d'interesse focalizzato sulla protezione dei diritti dei consumatori, la quale aveva sostenuto che il modello dei semafori britannici permettesse di mostrare meno “luci rosse” consentendo, quindi, di vendere come sani prodotti che, in realtà, non lo erano. Tale sistema di etichettatura riporta per 100g di alimento il contenuto in grassi, grassi saturi, sale e zuccheri ed evidenzia segnalando, con i colori del semaforo, i valori elevati, di media e bassa intensità. In tal modo l’etichetta segnala, con il colore rosso, i contenuti pericolosi per la nostra salute. Tale modello, tuttavia, è stato ampiamente criticato in particolar modo perché prende in considerazione 100g di prodotto anche nei casi in cui, come per l’olio d’oliva, risulti pressoché impossibile consumarne una tale quantità giornaliera. Sono in molti, adesso, a spingere per l’applicazione delle etichette nutrizionali francesi, definite nutri-score, nelle quali il rosso indica un alimento da assumere con moderazione, il giallo invita al consumo non esagerato e il verde indica un cibo sano. Una analisi dei soggetti responsabili, delle modalità di controllo e delle tutele previste dalle norme UE Recentemente ho più volte toccato, sia su questo blog che su retroattivamente.it il tema delle D.O.P. e I.G.P.. In questo ultimo articolo dedicato al settore, quindi, non rimane che analizzare due fattori importanti: i relativi controlli e tutela.
I controlli Abbiamo già visto come al centro della definizione di D.O.P. e I.G.P. vi sia il disciplinare di produzione: le aziende, in sostanza, devono seguire tale disciplinare ma ciò che in questa sede assume rilevanza sono, appunto, i controlli sull’osservanza dello stesso. Le norme di riferimento puntano, da un lato, ad individuare le modalità di svolgimento dei controlli e, dall’altro, i soggetti responsabili degli stessi. Le modalità di svolgimento dei controlli consistono in un processo di certificazione volto a valutare che il prodotto risponda ai requisiti fissati nel disciplinare. I soggetti responsabili devono possedere requisiti di imparzialità, terzietà e professionalità e possono essere sia enti pubblici che privati con la differenza che, questi ultimi, devono a loro volta essere certificati. La tutela Ovviamente i marchi D.O.P. e I.G.P. conferiscono ai relativi prodotti una particolare tutela rinvenibile nel dettato dell’art. 13, par. 1 del reg. 510/2006. Questo prevede la tutela delle denominazioni registrate da: a) qualsiasi impiego commerciale diretto o indiretto di una denominazione registrata per prodotti che non sono oggetto di registrazione, nella misura in cui questi ultimi siano comparabili ai prodotti registrati con questa denominazione o nella misura in cui l'uso di tale denominazione consenta di sfruttare la reputazione della denominazione protetta; b) qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l'origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali «genere», «tipo», «metodo», «alla maniera», «imitazione» o simili; c) qualsiasi altra indicazione falsa o ingannevole relativa alla provenienza, all'origine, alla natura o alle qualità essenziali dei prodotti usata sulla confezione o sull'imballaggio, nella pubblicità o sui documenti relativi ai prodotti considerati nonché l'impiego, per il condizionamento, di recipienti che possono indurre in errore sull'origine; d) qualsiasi altra prassi che possa indurre in errore il consumatore sulla vera origine dei prodotti. Le norme UE, tuttavia, non prevedono specifici strumenti tramite i quali attuare le tutele appena menzionate ma si limitano a rinviare, sul punto, alle disposizioni dei singoli ordinamenti nazionali. Qualche giorno fa una collega che, peraltro, scrive per questo blog, mi ha chiesto quale fosse la differenza tra la nozione di D.O.P. e quella di I.G.P.. Dopo averne parlato ho pensato che, in effetti, il punto potesse non essere chiarissimo e, per questo, ho deciso di scriverne.
Partiamo da un presupposto: cosa si intende per D.O.P. e I.G.P.? La D.O.P. (denominazione di origine protetta) è un marchio di tutela giuridica che viene attribuito dall'Unione Europea a quegli alimenti che posseggono caratteristiche qualitative dovute essenzialmente o esclusivamente al territorio in cui sono stati prodotti. I fattori che, in questo caso, assumono rilevanza possono essere sia fattori umani (come le tecniche di produzione) che fattori naturali. Caratteristica delle D.O.P. è che le fasi di produzione devono avvenire in un’area geografica delimitata e devono seguire specifiche regole produttive sulla cui osservanza vigila un organismo di controllo. La I.G.P. (indicazione geografica protetta), invece, individua il nome di una determinata area geografica utile a designare un prodotto agricolo o alimentare che viene prodotto in tale zona e di cui una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possano essere attribuite proprio all’origine geografica. Tale indicazione mira a valorizzare quei prodotti che devono le proprie caratteristiche all’ambito geografico di provenienza. Qual è la differenza? La prima differenza sta proprio nel vincolo tra il prodotto e il territorio che risulta essere più stretto nel casso della D.O.P.. Nella I.G.P., infatti, è sufficiente che anche una sola caratteristica o qualità sia legata all’origine geografica dell’alimento e, per giunta, questa caratteristica può essere anche la semplice reputazione del prodotto. Inoltre, nelle D.O.P. le fasi di produzione, trasformazione ed elaborazione del prodotto devono essere interamente e cumulativamente svolte entro l’area geografica di riferimento mentre nelle I.G.P. è sufficiente che anche solo una delle tre trovi compimento nel territorio. In conclusione, quindi, la differenza tra D.O.P. e I.G.P. va ricercata proprio nel legame con l’area geografica designata che è meno tenue nelle seconde rispetto alle prime. Con questo post spero di aver chiarito il punto. Se, però, dovessero esserci ancora dei dubbi perché non contattarmi? Puoi farlo tramite la mail [email protected] Foto: www.felicitapubblica.it Ciao, sono Elio Palumbieri, avvocato praticante specializzato in diritto alimentare e, soprattutto, curioso alimentare.
Ho parlato spesso, su blog e riviste online, di insetti commestibili per due motivi: l’interesse dal punto di vista giuridico e quello “extra-giuridico”. Prima di parlare di questi due elementi, però, voglio chiarire una cosa: non c’è e non ci sarà concorrenza tra un buon piatto di carbonara e gli insetti edibili. Nessuno vuole privarci delle nostre tradizioni, non esiste una Europa senza scrupoli che vuole imporci gli insetti a tavola a discapito della buona e vecchia tradizione culinaria italiana e, soprattutto, non c’è una faida tra chi ama la tradizione e chi cerca contaminazioni. Gli insetti, infatti, costituiscono una opportunità in più per chi vuole variare la propria dieta e ritiene questo alimento una valida alternativa. In sostanza: insetti e carbonara non sono nemici. Questa è una precisazione che, ai più, sembrerà superflua eppure, credetemi, deriva dalla enorme quantità di commenti di questo tenore che ricevo ogni volta che tocco l’argomento insetti edibili. Fatta questa, ahimè, doverosa premessa, torno ai miei buoni motivi per parlare di insetti edibili, partendo da quello extra-giuridico. La domanda che mi viene spesso fatta è: li hai provati? La risposta è sì. 21bites, infatti, è stata così gentile da farmi assaggiare alcuni dei suoi prodotti. Li ho fatti anche provare ad altri e, devo dire, specie i prodotti “trasformati” a base di farina di insetto, sono stati particolarmente apprezzati. Persino qualche scettico ha capito che non è necessario mangiare insetti interi ma è anche possibile utilizzarli in altre forme per piatti più tradizionali e vicini alla nostra cultura. E ha gradito. Il fatto di averli assaggiati, tuttavia, non è l’unico motivo extra-giuridico che mi spinge a parlarne. Infatti, pur non ritenendomi un nazi-ambientalista, sono fermamente convinto dell’importanza del tema. Ebbene, sotto questo punto di vista non si può non evidenziare la necessità di ricercare delle forme di alimentazione alternative a quella tradizionale e maggiormente sostenibili. Non è questa la sede per discutere dei problemi legati all’ambiente ma è, invece, importante evidenziare, anche qui, i vantaggi che gli insetti possono offrire. Questi, infatti, possono convertire 2kg di cibo in 1kg di peso corporeo. Questo dato, definito come efficienza di conversione nutrizionale, è decisamente superiore rispetto, ad esempio, alla carne di manzo. Ciò significa che gli insetti necessitano di meno acqua e meno cibo. In aggiunta a questo, gli allevamenti di insetti emettono meno gas serra con 1g su 1kg di peso rispetto ai 1300 grammi per kg di peso dei suini e ai 2850 dei bovini. A fronte di questi vantaggi dal punto di vista ambientale, gli insetti costituiscono anche una fonte di cibo nutriente: fornendo proteine, amminoacidi, micronutrienti e fibre. Come ho detto, però, non ci sono solo motivazioni extra-giuridiche. Il mio interesse nasce anche – e soprattutto – dalle norme. Il mondo dei novel foods, infatti, mi ha sempre affascinato ed è stato uno dei primi che ho messo sotto la lente di ingrandimento. Sì, giuridicamente, gli insetti commestibili rientrano tra quelli che vendono definiti “novel foods” o “nuovi alimenti”. In questa categoria rientra qualsiasi alimento che non sia stato consumato in modo significativo prima del maggio 1997. Ebbene, individuata l’esatta classificazione, occorre evidenziare che anche i novel foods trovano una precisa regolamentazione volta ad assicurarne il commercio e la produzione in sicurezza. Tali norme affidano alle EFSA (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) il ruolo di garante. Questa, infatti, svolge una valutazione scientifica del rischio basandosi sui fascicoli forniti alla Commissione Europea dai richiedenti. Tali fascicoli devono contenere una serie di informazione tra cui: descrizione del processo produttivo dell’alimento, usi proposti, livelli di utilizzo e caratteristiche nutrizionali, tossicologiche, allergeniche e di composizione dell’alimento. Dunque un iter che, quando sarà completato, garantirà la sicurezza anche di questo novel food…senza inutili guerre da social network. foto: felicitapubblica.it Hi!
I am Elio Palumbieri, trainee lawyer specialized in food law and, above all, food curious. I usually write on my blog about edible insects for two main reasons: the first one is related to law and the second one is not. However, before this, I have to clarify one thing: there is not any kind of competition between, for example, pasta and insects. Nobody wants to deprive us of our culinary traditions and this is not a war. Edible insects, in fact, could represent a good alternative for those who want to modify their diet. Therefore, pasta and insects are not enemies. This could seem a pointless clarification but, believe me, it comes from the comments I receive every time I write about this topic. Anyway, after this, I can come back to my reasons to write about edible insects. The first one is going to be the non-juridical one. Usually, people ask me “did you taste them?” The answer is yes, I did. 21bites gave me the opportunity to do so and I did it with some friends. The results were different but, honestly, they preferred the processed products as the Crikelle Crickets crackers. Even some skeptical changed their mind. However, this is not the only non-juridical reason. In fact, even if I am not obsessed by environmental problems, I am sure that this is an important theme. We cannot ignore the necessity to find new and more sustainable food sources. This is not the place to talk about the environment but it is important to underline the advantages that edible insects could offer. For example, insects could convert 2kilos of food into 1kilo of bodyweight. This factor is so important to underline the impact of edible insect if we consider that normal meat-animals consume at least twice of food for kilos of bodyweight. This means that insects need less water and food. In addition, the emission of greenhouse gas is lower in insects livestock than in traditional one: 1g for 1kilo of bodyweight instead of 1300g for pork and 2850 for bovine. My interest in edible insects comes primarily from the law. I find the novel foods world interesting and this is the edible insect’s world too. In this category, you can find all the food that has never been eaten before May 1997. This kind of food has a precise regulation on production and commercialization. The European Food Safety Authority (E.F.S.A.) is entrusted with the rule of guarantee checking all the information that who wants to commercialize those products in the E.U. must submit to the European Commission. This process, when it will be completed, will guarantee the safety of this novel food. Without any war on social networks. Ormai da qualche tempo di sente parlare della necessità di tutelare e salvaguardare le api. Proprio qualche giorno fa, durante la quotidiana ricerca di novità e aggiornamenti, mi sono imbattuto in un articolo che parlava del tema evidenziando l’importanza delle stesse per il nostro ecosistema. Nulla di nuovo, in effetti, ma questa volta mi sono soffermato a pensare a quali potessero essere gli elementi di pericolo.
Ebbene, proprio in questi giorni l’EFSA (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) ha confermato i rischi per le api derivanti dall’impiego di tre pesticidi della classe dei neonicotinoidi. Si tratta della alternativa al DDT derivante dalla nicotina e spruzzata su foglie, messa nel suolo in forma granulare o usata nel trattamento dei semi. Tali pesticidi e, in particolare, i principi attivi del clothianidin, imidacloprid e thiamethoxam, possono in effetti nuocere alla salute delle api da miele e di quelle selvatiche e solitarie. Il parere dell’Autorità era stato chiesto al fine di permettere agli Stati e alla Commissione UE di esprimersi sul divieto di tali principi attivi dopo che, nel 2013, erano state imposte alcune restrizioni e dopo la proposta di permettere l’uso dei neonicotinoidi solo in serra. La questione verrà discussa a marzo con gli Stati membri nel comitato per gli alimenti, le piante e i mangimi. Con la speranza di poter trovare una soluzione che valorizzi la produzione e tuteli l'ecosistema. I numeri del biologico non avrebbero bisogno di essere ribaditi. Tuttavia, non c’è modo migliore di spiegare l’importanza del settore. Quindi basti ribadire che lo scorso anno, secondo Coldiretti, il 60% degli italiani ha acquistato prodotti BIO, anche pagando il 15% in più rispetto ai prodotti non bio, con un aumento della domanda per gli ortaggi (+48%), i cereali (+32%), la vite (+23%) e l’olivo (+23%). Aumentano anche gli ettari a coltivazione biologica con un +20% rispetto allo scorso anno con maggiore concentrazione in Sicilia, Puglia e Calabria. L’export italiano di prodotti BIO, infine, è il più alto d’Europa con un valore pari a circa 2 miliardi di euro.
Insomma, un settore di vitale importanza su cui le imprese del food investono con sempre più frequenza. Forse anche per questo il CdM ha approvato il decreto legislativo che pone regole precise per controlli e controllori della filiera bio. Lo scopo è quello di imporre maggiori controlli per dare più sicurezza e trasparenza anche tramite informazioni migliori. L’attenzione è stata focalizzata, in primo luogo, sulla tracciabilità con l’introduzione dell’obbligo di registrare il percorso dalla materia prima al prodotto trasformato. Inoltre, al fine di eliminare eventuali conflitti di interesse, chi fa parte di un organismo di controllo non potrà più detenere partecipazioni in un consorzio o recarsi più di tre volte dallo stesso produttore. A ciò si aggiunge un inasprimento delle pene per gli enti certificatori e la creazione di una <<banca dati per le transazioni bio>> al fine di reprimere le frodi che, peraltro, ricorda molto l’idea di blockchain (qui per leggere l’articolo). Un generale inasprimento delle norme che, accompagnato dall’introduzione di nuovi divieti e obblighi, mira a rendere più sicuro un settore in continua crescita. Dalle criptovalute al food: come utilizzare questa preziosa innovazione Uno dei miei interessi principali, in questo periodo, è rappresentato dallo studio del fenomeno delle criptomonete. Come molti sapranno, si tratta di valute virtuali gestite, a seconda dei casi, da tecnologie comunque legate al metodo blockchain.
Non è questa, ovviamente, la sede in cui discutere delle valute ma, ragionando sul rapporto tra questa passione e il diritto alimentare ho pensato alle possibili applicazioni della tecnologia blockchain al settore food. In primo luogo, chiariamo: cos’è la tecnologia blockchain? Nel mondo delle criptomonete questa tecnologia viene utilizzata per archiviare e condividere informazioni. In sostanza, agendo in assenza di banche centrali, tali informazioni viaggiano su una rete decentralizzata di dati permettendo la registrazione di tutte le transazioni e, conseguentemente, la possibile consultazione delle stesse da parte di tutti gli utenti. Come potrebbe essere utilizzata nel settore alimentare? Chiunque abbia mai interagito con una filiera alimentare ne conosce il mantra: la tracciabilità. Non è più solo una questione di norme ma è diventata una questione di comunicazione e qualità. Ebbene, è qui che, con tutta probabilità, potrebbe entrare in gioco la tecnologia blockchain. A ben pensarci, infatti, il passaggio di materie prime, ingredienti, lavorati e semilavorati da un’azienda all’altra potrebbe essere equiparata alle transazioni effettuate in criptovalute. Un sistema di archiviazione e comunicazione decentralizzato, dunque, in grado di riportare, in ogni momento, tutte le informazioni necessarie sull’alimento analizzato. Pensiamo al consumatore che, tramite un codice (QR code come nel caso delle cripto), riesca a risalire all’origine di anche uno solo degli ingredienti presenti nel prodotto che sta acquistando o consumando o il luogo di nascita dell’animale oppure gli antibiotici e i vaccini utilizzati. E’ utile? Potrebbe esserlo. Due, infatti, sono i possibili risvolti pratici: prevenzione delle frodi e sicurezza alimentare. Da un lato, infatti, con dati precisi la blockchain sarebbe in grado di fornire immediatamente informazioni precise e pressoché impossibili da modificare prevenendo, così, ogni tentativo di frode. Dall’altro lato, invece, la stessa tecnologia garantirebbe una elevatissima reattività in caso di problemi legati alla sicurezza alimentare dei prodotti. Tramite la blockchain, infatti, potrebbe essere semplicissimo sapere dove è stato coltivato il pomodoro utilizzato per un barattolo di salsa, chi l’ha ispezionato, chi l’ha imbustata, come l’ha fatto e da chi è stata trasportata e commercializzata. Un esempio: la catena Walmart – che ha introdotto la blockchain – ha effettuato due test cercando di rintracciare la fattoria d’origine dei manghi venduti. In caso di problemi di food safety, infatti, è essenziale risalire correttamente all’origine del prodotto per bloccarne la vendita e selezionare e ritirare i prodotti già commercializzati. Ebbene, senza la tecnologia blockchain sono stati necessari sei giorni per effettuare la ricerca. Con la tecnologia 2 secondi. Il tempo risparmiato potrebbe salvare vite umane. Un utilizzo auspicabile su larga scala, dunque, che potrebbe essere finalizzato alla tutela del consumatore ma anche alla garanzia di qualità per gli imprenditori del settore alimentare. Sugli scaffali un prodotto su cinque evidenzia l'assenza di determinati ingredienti ma attenzione ai claims in etichetta Senza olio di palma. Senza glutine. Senza zuccheri aggiunti. Probabilmente non ce n’era bisogno ma una ricerca Coldiretti ha evidenziato la preferenza degli italiani per i cibi “senza”.
La ricerca, effettuata sulla base dell’Osservatorio Immagino su 46.600 prodotti, ha evidenziato che negli scaffali dei nostri supermercati un prodotto su cinque evidenzia sulla confezione l’assenza di determinati ingredienti ormai considerati nocivi dai consumatori. Il relativo giro d’affari si attesta a 6,5 miliardi con una crescita del 3,1% su base annua a giugno 2017. A crescere maggiormente sono le vendite di alimenti senza olio di palma (+17,6%) seguiti da cibi senza o con ridotto contenuto in grassi saturi (+7,6%) e quelli garantiti per l’assenza di sale (+7,2%). In forte crescita sono anche i prodotti senza zuccheri aggiunti (+6,1%), con poche calorie(+3,4%) e senza additivi (+3,4%). La ricerca non fa che mettere in evidenza l’importanza di un uso corretto, da parte degli imprenditori, dei c.d. claims. L’etichetta, infatti, può essere utilizzata dal produttore anche per dare al prodotto maggior valore tramite ulteriori indicazioni nutrizionali e sulla salute. Per “indicazione nutrizionale” si intende qualunque indicazione che affermi, suggerisca o sottintenda che un alimento abbia particolari proprietà nutrizionali benefiche, dovute all’energia (valore calorico) che apporta, a tasso ridotto o accresciuto o non apporta; e/o alle sostanze nutritive o di altro tipo che contiene, contiene in proporzioni ridotte o accresciute o non contiene. Il regolamento 1924/2006, a tal proposito, introduce il concetto di “claims” (tipico esempio di claim è “a basso contenuto calorico” o “ricco di proteine”) dando ai produttori dei criteri da rispettare per poter valorizzare l’alimento commercializzato senza, però, trarre in inganno il consumatore. Ad esempio: Claim “basso contenuto calorico” Nei prodotti solidi: non più di 400 kcal/100g Nei prodotti liquidi: non più di 20 kcal/100 ml Claim “Basso contenuto di grassi” Nei prodotti solidi: non più di 3g/100g Nei prodotti liquidi: non più di 1,5g/100 ml Claim: “Senza grassi” Nei prodotti solidi: non più di 0,5 g/100g Nei prodotti liquidi: non più di 0,5g/100 ml Claim: “Basso contenuto di zuccheri” Nei prodotti solidi: non più di 5g/100g Nei prodotti liquidi: non più di 2,5g/100 ml Claim: “Senza zuccheri” Nei prodotti solidi: non più di 0,5g/100g Nei prodotti liquidi: non più di 0,5g/100 ml Claim: “Fonte di fibre” Nei prodotti solidi: almeno 3g/100g o Almeno 1,5 g/100 kcal Claim: “alto contenuto di fibre” Nei prodotti solidi: almeno 6g/100g o almeno 3g/100 kcal Claim: “fonte di proteine” Nei prodotti solidi: solo se almeno il 12 % del valore energetico dell'alimento è apportato da proteine Claim: “alto contenuto di proteine” Nei prodotti solidi: solo se almeno il 12 % del valore energetico dell'alimento è apportato da proteine Ne sentiamo parlare da un po'. Cerchiamo di capire cosa bolle in pentola Gli insetti edibili al centro delle discussioni anche sui social ma le norme garantiscono la loro sicurezza.
Sono un curioso alimentare, assaggio quasi tutto e mi piace provare cucine di ogni genere. Non posso pretendere di convincervi ad assaggiare gli insetti (cosa che io ho già fatto) ma posso assicurarvi una cosa: gli insetti sono sicuri come tutti gli altri cibi acquistabili online e offline. D’altronde non parliamo propriamente del primo caso di “nuovo alimento” per noi. Altri esempi, ben più famosi, sono pomodori, banane, frutti tropicali, riso, mais e una vasta gamma di spezie. A ciò si aggiunga che l’uso di insetti come fonte di alimentazione ha, potenzialmente, importanti benefici per l’ambiente, per la sicurezza della disponibilità alimentare e per l’economia. Non si possono, infatti, ignorare due aspetti: quello nutrizionale e quello ambientale. Aspetti nutrizionali Gli insetti sono una fonte particolarmente importante di cibo nutriente. Forniscono, infatti, proteine, amminoacidi e acidi grassi mentre il contenuto di grassi può variare tra 7 e 77 g ogni 100 g di peso secco. Anche il contenuto di micronutrienti e fibre è particolarmente elevato. Aspetti ambientali Anche dal punto di vista ambientale gli insetti costituiscono una importante novità. Il primo aspetto rilevante è quello relativo al consumo del suolo. Gli insetti, infatti, hanno un’efficienza di conversione nutrizionale decisamente superiorerispetto alla carne di manzo e utilizzano meno acqua. Per efficienza di conversione nutrizionale si intende il rapporto tra cibo e massa. In media, gli insetti possono convertire 2 kg di cibo in 1 kg di massa, laddove un bovino necessita 8 kg di cibo per produrre l’aumento di 1 kg di peso corporeo. Il secondo aspetto da tenere in considerazione, invece, è quello relativo alle emissioni di gas serra. Dalle ricerche FAO, infatti, è emerso che le emissioni di gas a effetto serra sono minori rispetto ai tradizionali allevamenti animali, con una media di un 1 g su un 1 kg di peso rispetto ai 1300 grammi dei suini e ai 2850 dei bovini. Se anche queste argomentazioni non dovessero bastare, ecco qualche buon motivo giuridico per credermi. Cosa sono i “novel foods”? Gli insetti costituiscono, tecnicamente, “nuovi alimenti” o “novel foods”. Anzi, più precisamente, qualsiasi alimento che non sia stato consumato in modo significativo prima del maggio 1997 è da considerarsi come nuovo alimento. La categoria, in effetti, è abbastanza ampia: vi rientrano alimenti da nuove fonti, alimenti totalmente nuovi e nuove modalità e tecnologie di produzione degli alimenti. Qual è il procedimento da seguire per commercializzarli? Ebbene, in base alle norme attualmente vigenti, il ruolo di “garante” dei nuovi alimenti viene affidato alla European Food Safety Authority (EFSA) o Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare. Questa, in particolare, è tenuta a svolgere una valutazione scientifica del rischio. Tale valutazione è basata sui fascicoli forniti alla Commissione Europea dai richiedenti, contenenti informazioni sul processo produttivo dell’alimento, sugli usi proposti, sul livelli di utilizzo nonché dati sulle caratteristiche nutrizionali, di composizione, tossicologiche e allergeniche dell’alimento. Nel caso specifico degli insetti, inoltre, sarà necessario provare l’impiego sicuro di questi in almeno un Paese al di fuori dell’Unione europea per un periodo di almeno 25 anni. Ora, pochi giorni fa il Ministero della Salute ha emanato una nota informativa in merito all’uso di insetti in campo alimentare, specificando che, in mancanza della specifica autorizzazione, in Italia non è ammessa alcuna commercializzazione di insetti. Il primo parere dell’EFSA L’EFSA, tuttavia, sulla sicurezza degli insetti si è già espressa nell’ambito di un parere fornito a supporto del progetto della Commissione Europea volto allo sviluppo di politiche in materia di nuovi prodotti alimentari. L’Autorità, in particolare, basandosi sulla letteratura scientifica, su valutazioni effettuate dagli Stati membri e su informazioni fornite da parti interessate, ha evidenziato come i pericoli biologici e chimici derivanti da insetti possano dipendere da:
In conclusione, quindi, pur dovendosi ritenere già provata la sicurezza di questo nuovo alimento, dovremo ancora aspettare un po’ per vedere gli insetti sugli scaffali dei nostri supermercati. La “trafila burocratica”, infatti, deve essere portata a conclusione e i tempi potrebbero non essere brevi: la Commissione Europea dovrà autorizzare la commercializzazione di ogni prodotto e razza di insetto edibile. Immagine di copertina - Credits: shankar s. su Flickr (CC BY 2.0) L’intervento dell’EFSA e della Commissione Europea Come la mela di Biancaneve. Un frutto bellissimo – e anche particolarmente buono – come l’albicocca cela un veleno altrettanto potente. Parliamo dell’acido cianidrico (HCN), altrimenti detto cianuro, che può essere sprigionato dalla amigdalina contenuta nel seme di questo frutto. Tale sostanza, dopo l’ingestione, si trasforma nel suo ione cianuro (CN) il quale, arrestando alcune reazioni della respirazione cellulare, può provocare febbre, mal di testa, nervosismo, ipotensione, febbre, dolori muscolari e articolari.
Nonostante ciò, si sono diffusi online articoli e post che sottolineavano le proprietà antitumorali dei semi stessi. Tali proprietà, pur non essendo in alcun modo scientificamente provate, hanno comunque generato un flusso di acquisto che ha determinato l’EFSA – l’Autorità europea per la sicurezza alimentare - ad intervenire. In particolare, l’Autorità ha evidenziato che “il gruppo di esperti scientifici sui contaminanti nella catena alimentare (CONTAM) dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha adottato un parere scientifico sui rischi acuti per la salute connessi alla presenza di glicosidi cianogenicinei semi di albicocca grezzi e nei loro prodotti derivati”. Il gruppo, quindi, ha individuato una dose acuta di riferimento (DAR) di 20 μg/kg di peso corporeo. In sostanza, la DAR sarebbe superata già con il consumo di pochissimi semi di albicocca non trasformati. La Commissione, infine, è intervenuta con il regolamento (UE) 2017/1237 modificando il regolamento (CE) n. 1881/2006 e prevedendo che “L'operatore che immette sul mercato semi di albicocca non trasformati interi, macinati, moliti, frantumati, tritati per il consumatore finale dimostra, su richiesta dell'autorità competente, che il prodotto commercializzato rispetta il tenore massimo”. |
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April 2022
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