La presenza online di ogni impresa passa attraverso la registrazione di un nome a dominio efficace e la sua tutela Di Elio Palumbieri
La presenza online costituisce, oggi, una risorsa di straordinaria importanza per ogni impresa o professionista. Elemento fondamentale e punto di partenza per una buona presenza online è la registrazione di un nome a dominio facilmente memorizzabile e il più possibile corrispondente al proprio marchio. Il sistema dei nomi a dominio (Domain Name System, DNS) è utilizzato per la risoluzione di nomi degli host in indirizzi IP e viceversa. Un nome a dominio è costituito da un determinato numero di caratteri seguito da un’estensione. L’estensione indica la corrispondenza al registro nel quale viene iscritto il nome a dominio. Esistono tre tipi di registri, ognuno con proprie regole di registrazione: nazionali (es: .it, .de, .uk), regionali (es: .asia, .eu, .usa), generici (es: .com, .org, .info). Una volta effettuata la registrazione di un nome a domino è possibile effettuarne la cessione. Questa eventualità ha dato adito alla pratica del c.d. cybersquatting. Con il termine cybersquatting si indica la pratica di pirateria informatica, anche detta di domain squatting o domani grabbing, di chi registra abusivamente un dominio internet corrispondente a marchi commerciali o personaggi famosi al fine di lucrare sulla cessione ai soggetti interessati o al fine di indirizzare gli internauti verso il dominio abusivamente creato. Le tutele esperibili avverso tale pratica sono tre: quella riconducibile al principio del “first come, first served”, l’”uniform domain name dispute resolution policy” (UDRP) e la tutela dei marchi e dei segni distintivi. First come, first served Inizialmente l’unico principio applicabile in materia di registrazione dei nomi a dominio era quello del “first come, first served”. Tale principio, com’è intuibile dal nome, prevede che il legittimo titolare del nome a dominio sia colui che lo ha registrato per primo. Si tratta, quindi, di un criterio meramente cronologico che, è evidente, non garantisce alcuna tutela per il marchio eventualmente colpito dalla pratica di cybersquatting. l’UDRP A seguito della totale inerzia dei governi nazionali in materia è intervenuta una organizzazione privata: la Internet Corporation for Assigned Names and Number (ICAAN). L’ICAAN, che oggi collabora con molti enti di registrazione, ha emanato nel 1999 il documento UDRP che mira a tracciare un metodo unico di risoluzione delle controversie inerenti i nomi a dominio. Tale sistema è stato, poi, adottato anche da molte autorità nazionali tra cui figura anche quella italiana. Per poter usufruire della tutela approntata dall’ICAAN è necessaria la presenza di alcuni requisiti:
La tutela di marchi e segni distintivi La giurisprudenza italiana ha fatto ricorso alla tutela di marchi e segni distintivi. Il principio di base prevede che chi ha registrato un marchio ha diritto di servirsene in modo esclusivo anche online tramite la registrazione del relativo nome a dominio. Dunque, il titolare di un nome a domino vittima di cybersquatting, può agire in giudizio al fine di richiedere il trasferimento del nome a dominio contestato, la sua cancellazione e, in ogni caso, il risarcimento del danno subito. Altra pratica di pirateria informatica, simile al cybersquatting e particolarmente diffusa, è quella di typosquatting. Con il termine typosquatting si indica la registrazione di nomi a dominio contenenti refusi rispetto al nome originale con lo scopo di sfruttare i possibili errori di digitazione di chi effettua delle ricerche online. Anche a tale pratica è possibile applicare le tutele di cui sopra. Cybersquatting e typosquatting: la tutela del nome a domi Di Elio Palumbieri
Il Senato ha approvato il provvedimento Orlando di riforma della giustizia penale conferendo delega al Governo anche sull’introduzione del malware Trojan come strumento di intercettazione. La norma è stata inserita anche a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (dep. 1 luglio 2016 n. 26889) che aveva ammesso l’utilizzabilità del malware anche nei luoghi di privata dimora, pure se non singolarmente individuati e se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa, per i procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, anche terroristica. Il DDL, in particolare, prevede la necessità di disciplinare le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni tra presenti mediante immissione di captatori informatici in dispositivi elettronici portatili. Il Senato ha anche introdotto i seguenti criteri da rispettare: 1) l’attivazione del microfono deve avvenire solo in conseguenza di apposito comando inviato da remoto e non con il solo inserimento del captatore informatico, nel rispetto dei limiti stabiliti nel decreto autorizzativo del giudice; 2) la registrazione audio deve essere avviata dalla polizia giudiziaria o dal personale incaricato ai sensi dell’articolo 348, comma 4, del codice di procedura penale, su indicazione della polizia giudiziaria operante che è tenuta a indicare l’ora di inizio e fine della registrazione, secondo circostanze da attestare nel verbale descrittivo delle modalità di effettuazione delle operazioni di cui all’articolo 268 del medesimo codice; 3) l’attivazione del dispositivo deve sempre essere ammessa nel caso in cui si proceda per i delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale e, fuori da tali casi, nei luoghi di cui all’articolo 614 del codice penale soltanto qualora ivi si stia svolgendo l’attività criminosa, nel rispetto dei requisiti di cui all’articolo 266, comma 1, del codice di procedura penale; in ogni caso il decreto autorizzativo del giudice deve indicare le ragioni per le quali tale specifica modalità di intercettazione sia necessaria per lo svolgimento delle indagini; 4) il trasferimento delle registrazioni deve essere effettuato soltanto verso il server della procura così da garantire originalità ed integrità delle registrazioni; al termine della registrazione il captatore informatico deve essere disattivato e reso definitivamente inutilizzabile su indicazione del personale di polizia giudiziaria operante; 5) devono essere utilizzati soltanto programmi informatici conformi a requisiti tecnici stabiliti con decreto ministeriale da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al presente articolo, che tengano costantemente conto dell’evoluzione tecnica al fine di garantire che tali programmi si limitino ad effettuare le operazioni espressamente disposte secondo standard idonei di affidabilità tecnica, di sicurezza e di efficacia; 6) fermi restando i poteri del giudice nei casi ordinari, ove ricorrano concreti casi di urgenza, il pubblico ministero può disporre le intercettazioni di cui alla presente lettera, limitatamente ai delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale, con successiva convalida del giudice entro il termine massimo di quarantotto ore, sempre che il decreto d’urgenza dia conto delle specifiche situazioni di fatto che rendono impossibile la richiesta al giudice e delle ragioni per le quali tale specifica modalità di intercettazione sia necessaria per lo svolgimento delle indagini; 7) i risultati intercettativi così ottenuti possono essere utilizzati a fini di prova soltanto dei reati oggetto del provvedimento autorizzativo e possano essere utilizzati in procedimenti diversi a condizione che siano indispensabili per l’accertamento dei delitti di cui all’articolo 380 del codice di procedura penale; 8) non possono essere in alcun modo conoscibili, divulgabili e pubblicabili i risultati di intercettazioni che abbiano coinvolto occasionalmente soggetti estranei ai fatti per cui si procede. Di Elio Palumbieri e Massimo Zortea
Nel nostro paese l’industria alimentare si presenta come un settore particolarmente articolato. Basta dare uno sguardo ai dati Federalimentare: genera un fatturato di 132 miliardi, annovera oltre 58mila imprese, con 385mila addetti diretti ed altri 850mila impiegati nella produzione agricola a monte della filiera. È il secondo comparto assoluto dell’intero settore manifatturiero italiano. Sono numeri particolarmente consistenti, che rendono l’idea di un settore ampio ed eterogeneo per il quale non è agevole impostare una classificazione unitaria dei rischi. Proprio per tale complessa struttura, le industrie alimentari presentano esigenze di sicurezza sul lavoro peculiari e differenti rispetto ad altre industrie, in particolare dovute alla presenza di specifici fattori di rischio, che si aggiungono a quelli generici sempre presenti nell’industria. Il professionista e l’imprenditore sono preparati a rilevarli, pianificarli, gestirli? Per metterci alla prova, vediamone alcuni. Il rischio meccanico Il primo fattore di rischio da analizzare è il rischio meccanico. Parliamo, in particolare, dei rischi derivanti da agenti meccanici e dalla movimentazione manuale dei carichi e dall’uso dei macchinari e delle attrezzature da lavoro. Nel settore alimentare in effetti lo stoccaggio delle merci e la loro movimentazione manuale è una costante ed è più accentuata che in altri settori. Ma sappiamo cos’è la movimentazione manuale dei carichi? Con questo termine, la legge intende l’insieme delle “operazioni di trasporto o di sostegno di un carico ad opera di uno o più lavoratori, comprese le azioni del sollevare, deporre, spingere, tirare, portare o spostare un carico, che per le loro caratteristiche o in conseguenza delle condizioni ergonomiche sfavorevoli, comportano rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico in particolare dorso-lombari” (art. 167 D.Lgs. 81/2008). Il datore di lavoro, in questo caso, è tenuto ad adottare “le misure organizzative necessarie, ricorrere ai mezzi appropriati, in particolare attrezzature meccaniche, per evitare la necessità di una movimentazione manuale dei carichi da parte dei lavoratori”. Nel caso in cui, invece, ciò non sia possibile, il datore di lavoro deve adottare tutte le misure organizzative necessarie per ridurre il rischio (art. 168). Il rischio derivante da uso dei macchinari o delle attrezzature da lavoro, invece, ai sensi di legge è quello correlato: - all’utilizzo di “qualsiasi macchina, apparecchio, utensile o impianto destinato ad essere usato durante il lavoro” (art. 69) e rispettivamente - a “qualsiasi operazione lavorativa connessa ad una attrezzatura di lavoro, quale la messa in servizio o fuori servizio, l’impiego, il trasporto, la riparazione, la trasformazione, la manutenzione, la pulizia, il montaggio, lo smontaggio” (art. 69). Le attrezzature di lavoro devono essere conformi alle norme comunitarie di prodotto e, se queste dovessero mancare, devono essere conformi ai requisiti di sicurezza di cui all’allegato V dello stesso Decreto 81. Il rischio biologico Uno dei fattori di rischio maggiormente rilevanti per l’industria alimentare è, senza dubbio, il rischio biologico che può trovare la sua fonte in animali vivi, nella lavorazione di carcasse e carni o di latte crudo, nell’utilizzo di utensili di lavoro taglienti o, infine, nell’aria confinata all’interno dei locali e, quindi, nell’inquina-mento indoor. In materia di rischio biologico l’art. 267 del Decreto 81 definisce: - agente biologico “qualsiasi microrganismo anche se geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie o intossicazioni”; - microrganismo “qualsiasi entità microbiologica, cellulare o meno, in grado di riprodursi o trasferire materiale genetico”; - coltura cellulare “il risultato della crescita in vitro di cellule derivate da organismi pluricellulari”. Gli agenti biologici vengono classificati dal legislatore in quattro gruppi, a seconda del rischio di infezione. Il datore di lavoro deve tener conto di tutte le informazioni disponibili relative all’agente biologico e, in particolare: “a) della classificazione degli agenti biologici che presentano o possono presentare un pericolo per la salute umana quale risultante dall'allegato XLVI o, in assenza, di quella effettuata dal datore di lavoro stesso sulla base delle conoscenze disponibili e seguendo i criteri di cui all'articolo 268, commi 1 e 2; b) dell'informazione sulle malattie che possono essere contratte; c) dei potenziali effetti allergici e tossici; d) della conoscenza di una patologia della quale è affetto un lavoratore, che è da porre in correlazione diretta all'attività lavorativa svolta; e) delle eventuali ulteriori situazioni rese note dall'autorità sanitaria competente che possono influire sul rischio; f) del sinergismo dei diversi gruppi di agenti biologici utilizzati”. Il rischio chimico Altro fattore di rischio di ampia portata nel settore alimentare è quello derivante da sostanze pericolose, in primis gli agenti chimici (titolo IX, capo I del D.Lgs. 81/2008), ma anche gli agenti cancerogeni e mutageni (capo II). Per agente chimico si intende l’insieme di “tutti gli elementi o composti chimici, sia da soli sia nei loro miscugli, allo stato naturale o ottenuti, utilizzati o smaltiti, compreso lo smaltimento come rifiuti, mediante qualsiasi attività lavorativa, siano essi prodotti intenzionalmente o no e siano immessi o no sul mercato”. A norma dell’art. 223 del D.Lgs. 81/2008 il datore di lavoro è tenuto a valutare i rischi determinando l’eventuale presenza di agenti chimici pericolosi sul luogo di lavoro e valutandone i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori tenendo in considerazione: “a) le loro proprietà pericolose; b) le informazioni sulla salute e sicurezza comunicate dal responsabile dell'im-missione sul mercato tramite la relativa scheda di sicurezza predisposta ai sensi dei decreti legislativi 3 febbraio 1997, n. 52, e 14 marzo 2003, n. 65, e successive modifiche; c) il livello, il modo e la durata della esposizione; d) le circostanze in cui viene svolto il lavoro in presenza di tali agenti tenuto conto della quantità delle sostanze e dei preparati che li contengono o li possono generare; e) i valori limite di esposizione professionale o i valori limite biologici; di cui un primo elenco è riportato negli allegati XXXVIII e XXXIX; f) gli effetti delle misure preventive e protettive adottate o da adottare; g) se disponibili, le conclusioni tratte da eventuali azioni di sorveglianza sanitaria già intraprese”. Il datore di lavoro, inoltre, è tenuto ad eliminare o ridurre al minimo i rischi derivanti da agenti chimici pericolosi tramite: a) progettazione e organizzazione dei sistemi di lavorazione sul luogo di lavoro; b) fornitura di attrezzature idonee per il lavoro specifico e relative procedure di manutenzione adeguate; c) riduzione al minimo del numero di lavoratori che sono o potrebbero essere esposti; d) riduzione al minimo della durata e dell'intensità dell'esposizione; e) misure igieniche adeguate; f) riduzione al minimo della quantità di agenti presenti sul luogo di lavoro in funzione delle necessità della lavorazione; g) metodi di lavoro appropriati comprese le disposizioni che garantiscono la sicurezza nella manipolazione, nell'immagazzinamento e nel trasporto sul luogo di lavoro di agenti chimici pericolosi nonché dei rifiuti che contengono detti agenti chimici (art. 224 D.Lgs. 81/2008). Formazione di atmosfere esplosive Nelle industrie alimentari è altresì rilevante il rischio connesso alla formazione di atmosfere esplosive. Si consideri infatti che, nel settore in parola, non di rado alcuni prodotti vengono stoccati in polvere. L’art. 288 del D.Lgs. 81/2008 precisa che per atmosfera esplosiva si intende “una miscela con l'aria, a condizioni atmosferiche, di sostanze infiammabili allo stato di gas, vapori, nebbie o polveri in cui, dopo l’accensione, la combustione si propaga nell’insieme della miscela incombusta”. Per “condizioni atmosferiche”, invece, si intendono: “condizioni nelle quali la concentrazione di ossigeno nell’atmosfera è approssimativamente del 21 per cento e che includono variazioni di pressione e temperatura al di sopra e al di sotto dei livelli di riferimento, denominate condizioni atmosferiche normali (pressione pari a 101325 Pa, temperatura pari a 293 K), purché tali variazioni abbiano un effetto trascurabile sulle proprietà esplosive della sostanza infiammabile o combustibile”. In questo caso sarà necessario impedire la formazione delle atmosfere esplosive e, in particolare, del c.d. “triangolo del fuoco”, impedire l’accensione e infine limitare gli effetti dell’esplosione stessa. Di fronte a tutti questi rischi occorre quindi attivarsi senza ritardo per far eseguire una valutazione dei rischi a specifico contenuto alimentare. È fondamentale il ruolo degli esperti di settore (ingegnere, chimico, biologo, giurista ecc.), meglio sempre se consultati con un approccio interdisciplinare. La violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro comporta peraltro sanzioni molto pesanti, che possono essere di natura penale, civile e amministrativa. La responsabilità penale, come noto, è una responsabilità personale. Ma il D.Lgs 231/01 estende la responsabilità amministrativa da reato a carico delle imprese anche ad alcuni reati previsti in materia di sicurezza sul lavoro (art. 300). La responsabilità civile trova la sua principale norma di riferimento nell’art. 2087 c.c. il quale stabilisce che l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. La responsabilità civile può colpire sia l’impresa che la singola persona fisica avente ruoli rilevanti al suo interno ed espone questi soggetti ad oneri risarcitori spesso anche ingenti. L’art. 2 del D.Lgs. 81/2008 individua come noto tutte le figure che, anche all’interno di un’industria alimentare, hanno specifiche funzioni inerenti alla sicurezza sui luoghi di lavoro. In particolare, dirigente, preposto e responsabile del servizio di prevenzione e protezione a vario titolo sono tenuti a cooperare per monitorare e individuare i rischi sopra elencati, anche segnalandoli ai consulenti e dialogando con loro per la loro rimozione o contenimento. Parimenti, la responsabilità amministrativa può colpire sia enti che persone fisiche. Di Elio Palumbieri e Massimo Zortea
È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto 103 del 23 maggio 2016 che abroga il precedente decreto 225/2005 e prevede una serie di sanzioni in vigore dal 1° luglio 2016 per violazioni del regolamento europeo 22/2012 relativo alla commercializzazione dell’olio d’oliva. La norma colpisce, per la prima volta in maniera così perentoria, il fenomeno del “country sounding”: sono, infatti, sanzionabili i produttori che, pur rispettando le regole sull’etichettatura dei prodotti, inseriscono “segni, figure o illustrazioni in sostituzione della designazione dell'origine o che possono evocare un'origine geografica diversa da quella indicata” (art. 4). Più in dettaglio, le fattispecie sanzionate dall’art. 4 sono: Le fattispecie sanzionate sono in sintesi quattro: - la mancanza dell’indicazione dell’origine in etichetta e/o nei documenti commerciali; - l’indicazione dell’origine in contrasto con le disposizioni dell’art. 4 del regolamento, anche se veritiera; - il riportare segni, figure o illustrazioni in sostituzione della indicazione dell’origine, anche se veritieri; - il riportare segni, figure o illustrazioni che possono evocare un’origine geografica diversa da quella indicata in etichetta, anche se veritieri. Parliamo di un fenomeno particolarmente rilevante per la tutela del made in Italy. Il fenomeno dell’Italian Sounding (il country sounding nel caso di evocazione di origine italiana) genera annualmente, a livello mondiale, un giro d’affari annuo di circa 54 miliardi di euro (147 milioni di euro al giorno), oltre il doppio del valore delle esportazioni italiane di prodotti agroalimentari (23 miliardi di euro)[1]. Se pensiamo specificatamente al commercio dell’olio di origine contraffatta, il fenomeno è talmente diffuso che potrebbe trarre in inganno il 79% dei consumatori europei, l'84% degli americani e il 64% degli asiatici che ha dichiarato la propria propensione all’acquisto di olio italiano (dati Unaprol - Consorzio olivicolo italiano e Istituto Ixe). Il decreto 103/2016, quindi, prevede l’irrogazione di sanzioni pecuniarie da € 2.000 a € 12.000 nei confronti di tutte le aziende produttrici di olio d’oliva aventi marchio registrato in Italia successivamente al 31 dicembre 1998 o in Europa successivamente al 31 maggio 2002 che violino il citato art. 4 del decreto 103/2016. In vista della imminente entrata in vigore delle sanzioni, è già stata emanata una dettagliata circolare applicativa a cura del Dipartimento dell’Ispettorato Centrale della Tutela della Qualità e Repressione Frodi dei Prodotti Agro-Alimentari (Icqrf) del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (Mipaaf), dove si trova anche ampia casistica ed esempi pratici (cfr. www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/ L/IT/IDPagina/10213). Non è ancora una vittoria sulla contraffazione del made in Italy ma si comincia a delineare un complesso più maturo di regole a tutela di uno dei settori più rilevanti ed innovativi della nostra economia. Di Elio Palumbieri e Massimo Zortea
Ancora più che per gli altri casi di produzione alimentare, la normativa per gli alimenti di origine animale è particolarmente stringente e rigorosa. Il testo normativo di principale riferimento è il Regolamento UE 853/2004 (norme specifiche in materia di igiene per gli alimenti di origine animale), che contiene numerose regole specifiche ed è posto ad integrazione e completamento del Regolamento 852/2004: le disposizioni e le definizioni di quest’ultimo, insieme a quelle del reg. 178/2002, infatti, si applicano anche agli alimenti di origine animale, tranne nel caso in cui sia prevista espressa deroga dal Reg. 853/2004. Preliminarmente va chiarito che, come forse non tutti sanno, il Reg. 853/2004 non trova applicazione nei seguenti casi (art. 1 del regolamento): - alimenti che contengono prodotti di origine vegetale e prodotti trasformati di origine animale. Tuttavia, i prodotti trasformati di origine animale utilizzati per preparare detti prodotti devono essere ottenuti e manipolati conformemente ai requisiti dettati dal regolamento; - produzione primaria per uso domestico privato; - preparazione, manipolazione e conservazione domestica di alimenti destinati al consumo domestico privato; - fornitura diretta di piccoli quantitativi di prodotti primari dal produttore al consumatore finale o ai laboratori annessi agli esercizi di commercio al dettaglio o di somministrazione a livello locale che riforniscono direttamente il consumatore finale; - fornitura diretta di piccoli quantitativi di carni provenienti da pollame o lagomorfi macellati nell’azienda agricola dal produttore al consumatore finale o ai laboratori annessi agli esercizi di commercio al dettaglio o di somministrazione a livello locale che forniscono direttamente al consumatore finale siffatte carni come carni fresche: - cacciatori che forniscono piccoli quantitativi di selvaggina selvatica o di carne di selvaggina selvatica direttamente al consumatore finale o ai laboratori annessi agli esercizi di commercio al dettaglio o di somministrazione a livello locale che riforniscono il consumatore finale. A norma del paragrafo 4 dell’art. 1 del Reg. 853/2004, gli stati membri hanno il compito di disciplinare le eccezioni appena elencate. Chiarito il campo di applicazione del Regolamento (tutti gli altri casi di alimenti di origine animale), vediamo le regole principali da tenere presenti. All’art. 2 si dettano le definizioni, ma solo mediante un rinvio ai tre allegati del regolamento ed agli altri regolamenti sopra richiamati. Parte fondamentale del Reg. 853/2004 è costituita quindi dai tre allegati. L’allegato I del regolamento fornisce una serie di definizioni utili alla corretta attuazione delle norme dallo stesso prescritte. L’allegato II, invece, fornisce una serie di requisiti essenziali per i prodotti di origine animale. Innanzitutto si occupa dalla marchiatura d’identificazione, la cui disciplina generale si trova all’art. 5 del regolamento: l’allegato prescrive che essa sia leggibile, indelebile e facilmente decifrabile; deve, inoltre, indicare il nome del paese in cui è situato lo stabilimento e il numero di riconoscimento dello stesso. Prevede, inoltre, a seconda della presentazione dei vari prodotti di origine animale, le varie modalità di apposizione su prodotto o contenitore o etichetta della marchiatura. Al riguardo, si noti che i gestori di macelli sono tenuti a verificare la correttezza e la completezza delle informazioni loro fornite intervenendo, ove necessario, per ottenere integrazioni. L’allegato III prescrive specifiche e minuziose regole sulle carni di numerose specie animali tra cui gli ungulati domestici, pollame e lagomorfi, selvaggina selvatica, carni macinate, preparazioni di carni e carni separate meccanicamente, prodotti a base di carni, molluschi bivalvi vivi, prodotti della pesca ma anche latte crudo e prodotti lattiero-caseari, uova o ovoprodotti, cosce di rana e lumache, grassi di origine animale e ciccioli, stomachi, vesciche e intestini trattati, gelatina e collagene. Le regole dettate dall’allegato III riguardano, ad esempio, magazzinaggio e trasporto, macellazione, manipolazione, lavaggio. Vanno quindi consultate con attenzione. Data la rilevanza e corposità dei tre allegati, l’art. 3 del regolamento 853/2004, nel delineare gli “obblighi generali” per gli operatori del settore alimentare fa rinvio appunto agli allegati II e III. Gli OSA, inoltre, sono tenuti a non usare sostanze diverse dall’acqua potabile o dell’acqua pulita ove l’uso sia approvato dall’art 12 paragrafo 2. L’art. 4, inoltre, rubricato “registrazione e riconoscimento degli stabilimenti” prevede che gli stabilimenti in cui i prodotti di origine animale sono preparati e manipolati debbano soddisfare i requisiti del reg. 852/2004 e degli allegati II e III del regolamento 853/2004. Il paragrafo 2 dello stesso articolo prevede che “gli stabilimenti che trattano i prodotti di origine animale per i quali sono previsti requisiti ai sensi dell’allegato III del presente regolamento possono operare solo se l’autorità competente li ha riconosciuti a norma del paragrafo 3”. Quest’ultimo, a sua volta, precisa che tali stabilimenti necessitano di autorizzazione a seguito di ispezione. Si deve tenere presente che l’art. 3, lettera s), del D.Lgs. 193/2007 ha abrogato l’art. 2 della L. 283/62, che prevedeva l’obbligo di autorizzazione sanitaria per l’apertura e l’esercizio di stabilimenti di produzione, preparazione e confezionamento. Tuttavia, proprio in forza dell’art. 4 del reg. 853/2004 vi è, ad oggi, un obbligo di “riconoscimento previa ispezione in loco” per tutti gli stabilimenti ove si producono alimenti di origine animale. Altro tema assai rilevante, disciplinato dall’art. 6, è quello dei prodotti di origine animale di provenienza esterna dalla Comunità. Le regole prescritte da questo articolo vanno consultate con attenzione, anche perché rappresentano una delle principali misure per difendersi dalla minaccia di importazione di prodotti alimentari di origine animale dannosi, artefatti, ingannevoli. I successivi artt. 7 e 8 disciplinano invece gli scambi e dettano i documenti da utilizzare e le garanzie speciali da prestare in sede di scambio di tali prodotti. Le norme contenute negli articoli da 9 a 15 infine sono di carattere procedurale e riguardano sostanzialmente le modalità con cui attuare o modificare il regolamento. La traduzione ufficiale in italiano del regolamento si trova in: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32004R0853&.... Di Elio Palumbieri e Massimo Zortea
La cultura alimentare è in rapida evoluzione, anche grazie alla velocità di trasporto di ingredienti e cibi nonché di comunicazione di informazioni ed idee, oltre alla necessità di ricercare sempre nuove soluzioni alimentari per sopperire alla scarsità di risorse. Due delle conseguenze destinate ad avere grande diffusione sono da un lato il crescente numero di alimenti nuovi (c.d. novel food) introdotti sui nostri mercati e dall’altro la spinta al consumo di alimenti geneticamente modificati, sia per il consumo umano diretto sia per il loro utilizzo nelle filiere delle carni e degli altri prodotti di origine animale. Un'altra rilevantissima innovazione è quella della lotta agli sprechi alimentari, che ha conosciuto recenti sviluppi normativi di cui potremo occuparci in seguito. Ma quali sono le modalità attraverso le quali i nuovi alimenti e gli alimenti geneticamente modificati possono entrare sul mercato europeo? Vediamo una rapida sintesi delle principali norme comunitarie in materia. Nuovi alimenti: regolamento n. 2283/2015 La disciplina dei nuovi alimenti è interamente contenuta all’interno del reg. 2283/2015, che entrerà in vigore nel 2018. Il regolamento abroga e sostituisce i regolamenti 258/97 e 1852/2001. Il primo dei due, peraltro, riguardava non solo i nuovi alimenti ma anche gli OGM e, più in generale, tutti gli alimenti non presenti in natura e frutto di attività di Ricerca&Sviluppo in ambito alimentare. L’ambito di applicazione del regolamento 2283/2015 è, invece, ristretto ai nuovi alimenti. L’art. 3 individua due macro categorie di nuovi alimenti: da un lato gli alimenti definiti “nuovi” perché mai utilizzati come cibo prima del 15 maggio 1997 e dall’altro gli alimenti tradizionali provenienti da un paese terzo e costituiti, isolati o prodotti da microorganismi, funghi o alghe, da piante o da parti delle stesse nonché alimenti costituiti, isolati od ottenuti a partire da animali o da parti dei medesimi o da colture cellulari o tessuti derivanti da animali, piante, microorganismi, funghi o alghe. Il regolamento, inoltre, specifica che gli alimenti di questa seconda categoria devono derivare dalla produzione primaria. Il controllo sulla conformità del nuovo alimento che si intende immettere sul mercato alle norme del regolamento spetta agli OSA i quali, in caso di dubbio, consultano lo stato membro in cui intendono commercializzare il prodotto. Lo Stato membro, a sua volta, può consultare gli altri Stati membri e la Commissione. A norma degli artt. 6 e 8 la Commissione dovrà istituire (entro il 1° gennaio 2018) e aggiornare un elenco dell’Unione contenente i nuovi alimenti autorizzati ad essere commercializzati nel mercato interno. L’art. 7 prevede, inoltre, che tale inserimento debba tener conto non solo dell’assenza di rischi per la salute umana ma anche dell’inidoneità ad indurre in errore i consumatori circa l’uso previsto dell’alimento. Il fulcro del regolamento, tuttavia, rimane il capo III titolato “procedure di autorizzazione di un nuovo alimento”. In particolare, occorre distinguere tra le procedure valide in via generale e quelle, invece, previste per il caso specifico dell’introduzione nel mercato interno di prodotti tradizionali da paesi terzi. Nel primo caso è la Commissione ad essere al centro dell’intero procedimento: riceve la richiesta di autorizzazione, la mette a disposizione degli Stati membri senza ritardo, pubblica una sintesi delle informazioni contenute nella richiesta e può richiedere un parere all’EFSA (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare), che deve provvedere entro nove mesi dalla data di ricezione della domanda (sempre che l’Autorità non richieda ulteriori informazioni: in tal caso, infatti, il termine può essere prolungato). Trascorsi sette mesi dalla pubblicazione del parere da parte dell’Autorità o, nel caso in cui la Commissione non ne abbia fatto richiesta, dal momento della ricezione della domanda, spetta sempre alla Commissione presentare al comitato permanente per le piante, gli animali, gli alimenti e i mangimi (istituito dall'articolo 58, paragrafo 1, del Reg. 178/2002) una proposta di atto di esecuzione che autorizza l’immissione sul mercato del nuovo alimento (art. 12), aggiornando l’apposito elenco. Nel caso, invece, dell’immissione nel mercato interno di alimenti tradizionali da paesi terzi, è previsto un procedimento differente: il richiedente può presentare una – più semplice – notifica alla Commissione, la quale deve, entro un mese, inoltrare tale notifica agli Stati membri e all’Autorità. Questi, entro quattro mesi dalla data di notifica, possono presentare obiezioni motivate relative alla sicurezza dell’alimento e, in tal caso, la Commissione non autorizza l’immissione dell’alimento e non aggiorna l’elenco. In assenza di obiezioni entro quattro mesi dalla notifica, invece, la Commissione autorizza l’immissione sul mercato e aggiorna l’elenco. Nel caso in cui, come visto, la procedura azionata dalla notifica dovesse sortire esito negativo, l’art. 16 prevede che il richiedente possa comunque presentare richiesta di autorizzazione fornendo, ovviamente, tutte le informazioni ulteriormente necessarie. Alimenti geneticamente modificati: i regolamenti nn. 1829/2003 e 1830/2003 L’analisi della materia europea inerente agli alimenti geneticamente modificati non può che partire dal regolamento 1829/2003. Ribadite, nei considerando, le preoccupazioni circa la salute dei cittadini e la tutela della vita e della salute umana, il regolamento specifica che “gli alimenti e i mangimi che contengono organismi geneticamente modificati o sono costituiti o prodotti a partire da tali organismi, dovrebbero essere sottoposti a una valutazione della sicurezza tramite una procedura comunitaria prima di essere immessi sul mercato comunitario”. L’art. 2 rinvia all’art. 2 punto 2 della direttiva 2001/18/CE per la definizione di OGM: organismo geneticamente modificato deve intendersi “un organismo, diverso da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o con la ricombinazione genetica naturale”, ad esclusione degli organismi ottenuti tramite le tecniche della mutagenesi e della fusione cellulare (inclusa la fusione di protoplasti) di cellule vegetali di organismi che possono scambiare materiale genetico anche con metodi di riproduzione tradizionali. Gli OGM non devono essere nocivi per la salute umana, per la salute degli animali o per l’ambiente, non devono trarre in inganno i consumatori e non devono differire dagli alimenti che intendono sostituire in misura tale che il loro consumo normale sarebbe svantaggioso per i consumatori sul piano nutrizionale (art. 4 par 1). Chi intende immettere in commercio un OGM destinato all’alimentazione umana o un alimento che contiene o è costituito da OGM deve ottenere apposita autorizzazione, dopo aver dimostrato il rispetto dei requisiti appena citati. La domanda di autorizzazione deve essere presentata all’autorità nazionale competente di ciascuno Stato membro. L’autorità deve informare l’EFSA fornendole anche tutte le informazioni supplementari fornite dal richiedente. L’EFSA informa gli altri Stati membri e la Commissione mettendo anche a disposizione del pubblico un dossier sintetico. L’EFSA deve, inoltre, esprimere il suo parere entro 6 mesi (prorogabili nel caso siano necessarie ulteriori informazioni). La Commissione, entro 3 mesi dal ricevimento del parere dell’Autorità, sottopone al Comitato permanente per la catena alimentare e la salute degli animali un progetto di decisione da prendere in merito alla domanda. C’è da sottolineare, però, che – anche quando l’autorizzazione viene concessa – deve poi essere rinnovata a cadenza decennale e i titolari della stessa sono tenuti non solo a conformarvisi in toto non commercializzando prodotti che non rientrano nell’autorizzazione e monitorando continuativamente il prodotto immesso sul mercato, ma anche ad informare immediatamente la Commissione di qualsiasi nuova informazione scientifica o tecnica che potrebbe variare la valutazione sulla sicurezza dell’alimento in questione. Per questi motivi l’art. 10 prevede la possibilità di modificare, sospendere e revocare le autorizzazioni: sulla questione, sollevata dal richiedente, da uno Stato membro o dalla Commissione, si pronuncia l’EFSA. A norma dell’art. 34, inoltre, quando i prodotti autorizzati possono comportare un rischio per la salute umana, degli animali o su parere dell’EFSA (come appena visto) l’autorizzazione può essere sospesa o modificata celermente, tramite le procedure d’urgenza previste dagli articoli 53 e 54 del regolamento n. 178/2002. In base all’art. 53 la Commissione dispone di svariati poteri: sospendere l’immissione sul mercato (per prodotti di origine comunitaria) o le importazioni (per prodotti importati da un paese terzo), imporre condizioni all’utilizzo o adottare ogni altra misura provvisoria adeguata. L’art. 54 a sua volta prevede che, qualora uno Stato membro informi la Commissione circa i rischi derivanti dall’utilizzo dell’alimento e questa non agisca a norma del precedente art. 53, lo Stato possa adottare autonomamente le misure cautelari provvisorie. Ulteriore argomento particolarmente rilevante è quello dell’etichettatura degli OGM. Bisogna fare riferimento agli artt. 12 e 13 del regolamento 1829/2003. Si noti che tali norme non si applicano agli “alimenti che contengono materiale che contiene, è costituito o prodotto a partire da OGM presenti in proporzione non superiore allo 0,9% degli ingredienti alimentari considerarti individualmente o degli alimenti costituiti da un unico ingrediente, purché tale presenza sia accidentale o tecnicamente inevitabile” (art. 12). Quanto alle informazioni da riportare, in etichetta deve essere specificato l’ingrediente geneticamente modificato e si devono precisare le differenze con l’alimen-to tradizionale dal punto di vista della composizione, dei valori o effetti nutrizionali, dell’uso previsto e delle implicazioni per la salute di certi segmenti della popolazione; infine occorre indicare se un alimento può dare luogo a preoccupazioni di ordine etico o religioso (art. 13). L’altro regolamento maggiormente significativo in materia è il n. 1830/2003 che contiene norme sulla tracciabilità dei prodotti OGM. È previsto che, sin dalla prima fase dell’immissione in commercio, gli operatori debbano assicurare la trasmissione per iscritto all’operatore che riceve il prodotto delle seguenti informazioni: a) indicazione che il prodotto contiene OGM o è da essi costituito; b) indicazione degli identificatori unici assegnati agli OGM. L’identificatore unico è un codice numerico o alfanumerico che consente di distinguere in maniera precisa ciascuna specie di OGM. Peraltro tali informazioni devono essere trasmesse per iscritto anche nelle fasi successive. La cultura alimentare è in rapida evoluzione anche grazie alla velocità di trasporto e di comunicazione ed alla necessità di ricercare sempre nuovi alimenti per sopperire alla scarsità di risorse Di Elio Palumbieri e Massimo Zortea
La cultura alimentare è in rapida evoluzione anche grazie alla velocità di trasporto e di comunicazione ed alla necessità di ricercare sempre nuovi alimenti per sopperire alla scarsità di risorse. Inoltre, lo scorso anno EXPO ha contribuito a diffondere e a far apprezzare culture alimentari differenti. La prima conseguenza di questa evoluzione è un sempre crescente numero di “alimenti nuovi” introdotti sui nostri mercati. Ma cosa si intende per alimenti nuovi e, soprattutto, quali sono le modalità attraverso le quali i possono essere immessi sul mercato europeo? Andiamo per gradi: il regolamento 258/97 Come vedremo più avanti la disciplina inerente ai nuovi alimenti è, oggi, contenuta nel regolamento UE 2283/2015 che abroga e sostituisce il regolamento 258/97. Il recente regolamento, però, non può essere pienamente compreso senza aver prima analizzato il contenuto del precedente. Il regolamento del 1997 riguardava non solo i nuovi alimenti ma anche gli OGM e, più in generale, tutti gli alimenti non presenti in natura e frutto di attività di R&D in ambito alimentare. E’ nel 2003, in particolare con i regolamenti 1829 e 1830, che si è provveduto a disciplinare in maniera più approfondita gli OGM lasciando al regolamento 258/1997 solo l’ambito residuale del nuovi alimenti. Il regolamento del 1997 aveva, per la prima volta, predisposto un procedimento unico e accentrato di controllo e valutazione dei nuovi alimenti e definiva nuovi alimenti i “prodotti e ingredienti alimentari non ancora utilizzati in misura significativa per il consumo umano nella Comunità”. I nuovi alimenti nel regolamento UE 2283/2015 Il regolamento 2283/2015 individua all’art. 3 due macro categorie: da un lato gli alimenti definiti “nuovi” perché mai utilizzati come alimento prima del 15 maggio 1997 e dall’altro gli alimenti tradizionali provenienti da un paese terzo e costituiti, isolati o prodotti da microorganismi, funghi o alghe, da piante o da parti delle stesse nonché alimenti costituiti, isolati od ottenuti a partire da animali o da parti dei medesimi o da colture cellulari o tessuti derivanti da animali, piante, microorganismi, funghi o alghe. Il regolamento, inoltre, specifica che gli alimenti di questa seconda categoria devono derivare dalla produzione primaria. Il controllo sulla conformità del nuovo alimento che si intende immettere sul mercato alle norme del regolamento spetta agli OSA i quali, in caso di dubbio, consultano lo stato membro in cui intendono commercializzare il prodotto. Lo Stato membro, a sua volta, può consultare gli altri Stati membri e la Commissione. A norma degli artt. 6 e 8 la Commissione dovrà istituire (entro il 1° gennaio 2018) e aggiornare un elenco dell’Unione contenente i nuovi alimenti autorizzati ad essere commercializzati nel mercato interno. L’art. 7 prevede, inoltre che tale inserimento debba tener conto non solo dell’assenza di rischi per la salute umana ma anche dell’inidoneità ad indurre in errore i consumatori circa l’uso previsto dell’alimento. L’autorizzazione all’immissione sul mercato di un nuovo alimento Il fulcro del regolamento, tuttavia, rimane il capo III titolato “procedure di autorizzazione di un nuovo alimento”. In particolare, possiamo distinguere tra le procedure generalmente valide e quelle, invece, previste per il caso specifico dell’immissione sul mercato interno di prodotti tradizionali da paesi terzi. La procedura generalmente valida Nel primo caso è la Commissione ad essere al centro dell’intero procedimento: riceve la richiesta di autorizzazione, la mette a disposizione degli Stati membri senza ritardo, pubblica una sintesi delle informazioni contenute nella richiesta e può richiedere un parere all’EFSA (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) che deve provvedere entro nove mesi dalla data di ricezione della domanda (sempre che l’Autorità non richieda ulteriori informazioni: in tal caso, infatti, il termine può essere esteso). Trascorsi sette mesi dalla pubblicazione del parere da parte dell’Autorità o, nel caso in cui la Commissione non ne abbia fatto richiesta, dal momento della ricezione della domanda, spetta sempre alla Commissione presentare al comitato permanente per le piante, gli animali, gli alimenti e i mangimi (istituito dall'articolo 58, paragrafo 1, del Reg. 178/2002) una proposta di atto di esecuzione che autorizza l’immissione sul mercato del nuovo alimento (art. 12) aggiornando l’elenco. La procedura per gli alimenti tradizionali da paesi terzi Nel caso, invece, dell’immissione sul mercato interno degli alimenti tradizionali da paesi terzi, è previsto un procedimento differente: il richiedente può presentare una – più semplice – notifica alla Commissione la quale deve, entro un mese, inoltrare tale notifica agli Stati membri e all’Autorità. Questi, entro quattro mesi dalla data di notifica, possono presentare obiezioni motivate relative alla sicurezza dell’alimento e, in tal caso, la Commissione non autorizza l’immissione dell’alimento e non aggiorna l’elenco. In assenza di obiezioni entro quattro mesi dalla notifica, invece, la Commissione autorizza l’immissione sul mercato e aggiorna l’elenco. Nel caso in cui, come visto, la procedura azionata dalla notifica dovesse sortire esito negativo, l’art. 16 prevede che il richiedente possa comunque presentare richiesta di autorizzazione fornendo, ovviamente, tutte le informazioni ulteriormente necessarie. È questo in una primissima sintesi il quadro concettuale e normativo in tema di novel food, di cui qualsiasi professionista deve avere almeno una infarinatura. Ma la materia merita senz’altro un nostro approfondimento in successivi articoli di dettaglio. di Elio Palumbieri e Massimo Zortea
L’innovazione alimentare e, in particolare, il tema degli alimenti geneticamente modificati, a partire dagli OGM (Organismi Geneticamente Modificati) è un ambito particolarmente complesso: incluse un ampio ventaglio di concetti e definizioni, suscita questioni scientifiche ed altresì etiche rilevanti, investe problematiche commerciali legate alle sementi, alla tutela del “made in” e ai costi di R&D, inaccessibili alla maggior parte dei produttori e molto altro ancora. È peraltro di recente intervenuto un ulteriore capitolo della saga normativa in materia, ovvero la direttiva dell’Unione Europea 2015/412/UE, che ha modificato la vecchia direttiva 2001/18/CE, in particolare introducendo alcune norme relative al meccanismo di autorizzazione a regime e alle misure transitorie. Anche lo stato del recepimento delle misure a regime e di quelle transitorie è in continua ebollizione e richiede un monitoraggio costante. Il professionista rimane perplesso e spesso disorientato, anche in considerazione di una vasta rassegna giurisprudenziale che affianca la già intricata normativa. Tentiamo quindi di proporre una radiografia ragionata del contesto normativo, per avere un quadro d’assieme quanto più organico possibile, di analizzare le norme attraverso le quali è permesso l’ingresso nel mercato europeo degli OGM. Alimenti geneticamente modificati: i regolamenti UE 1829/2003 e 1830/2003. L’analisi della normativa europea inerente agli alimenti geneticamente modificati non può non partire dal regolamento 1829/2003. Ribadite, nei considerando, le preoccupazioni circa la salute dei cittadini e la tutela della vita e della salute umana, il regolamento specifica che “gli alimenti e i mangimi che contengono organismi geneticamente modificati o sono costituiti o prodotti a partire da tali organismi, dovrebbero essere sottoposti a una valutazione della sicurezza tramite una procedura comunitaria prima di essere immessi sul mercato comunitario”. La definizione di OGM L’art. 2 del regolamento rinvia all’art. 2 punto 2 della direttiva 2001/18/CE per recuperare la definizione di OGM; in particolare, la direttiva stabilisce che per organismo geneticamente modificato debba intendersi “un organismo, diverso da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo diverso da quanto avviene in natura con l’accoppiamento e/o con la ricombinazione genetica naturale” ad esclusione degli organismi ottenuti tramite le tecniche della mutagenesi e della fusione cellulare (inclusa la fusione di protoplasti) di cellule vegetali di organismi che possono scambiare materiale genetico anche con metodi di riproduzione tradizionali. A partire da questa definizione, si stabilisce che gli OGM non devono essere nocivi per la salute umana, per la salute degli animali o per l’ambiente, non devono trarre in inganno i consumatori e non devono differire dagli alimenti che intendono sostituire in misura tale che il loro consumo normale sarebbe svantaggioso per i consumatori sul piano nutrizionale (art. 4 par 1). L’autorizzazione all’immissione sul mercato europeo Chi intende immettere in commercio un OGM destinato all’alimentazione umana o un alimento che contiene o è costituito da OGM deve ottenere apposita autorizzazione, dopo aver dimostrato il rispetto dei requisiti appena citati. La domanda di autorizzazione deve essere presentata all’autorità nazionale competente di ciascuno Stato membro. L’autorità deve informare l’EFSA (Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare) fornendole anche tutte le informazioni supplementari fornite dal richiedente. L’EFSA informa gli altri Stati membri e la Commissione mettendo anche a disposizione del pubblico un dossier sintetico. L’EFSA deve, inoltre, esprimere il suo parere entro 6 mesi (prorogabili nel caso siano necessarie ulteriori informazioni). La Commissione, entro 3 mesi dal ricevimento del parere dell’Autorità, sottopone al Comitato permanente per la catena alimentare e la salute degli animali un progetto di decisioni da prendere in merito alla domanda. C’è da sottolineare, però, che l’autorizzazione – una volta concessa – deve poi essere rinnovata a cadenza decennale e i titolari della stessa sono tenuti non solo a conformarvisi in toto non commercializzando prodotti che non rientrano nell’autorizzazione e monitorando continuativamente il prodotto immesso sul mercato, ma anche ad informare immediatamente la Commissione di qualsiasi nuova informazione scientifica o tecnica che potrebbe variare la valutazione sulla sicurezza dell’alimento in questione. Per questi motivi l’art. 10 prevede la possibilità di modificare, sospendere e revocare le autorizzazioni: sulla questione, sollevata dal richiedente, da uno Stato membro o dalla Commissione, si pronuncia l’EFSA. A norma dell’art. 34, inoltre, quando i prodotti autorizzati possono comportare un rischio per la salute umana, degli animali o su parere dell’EFSA (come appena visto) l’autorizzazione può essere sospesa o modificata urgentemente tramite le procedure d’urgenza previste dagli artt. 53 e 54 del reg 178/2002. Secondo l’art. 53 la Commissione può sospendere l’immissione sul mercato (per prodotti di origine comunitaria) o le importazioni (per prodotti importati da un paese terzo), imporre condizioni all’utilizzo o adottare ogni altra misura provvisoria adeguata. L’art. 54 prevede, invece, che, qualora uno Stato membro informi la Commissione circa i rischi derivanti dall’utilizzo dell’alimento e questa non agisca a norma del precedente art. 53, lo Stato possa adottare autonomamente le misure cautelari provvisorie. Particolarmente rilevante sotto questi profili è la direttiva 2015/412/UE che ammette la libertà di coltivazione degli OGM da parte degli Stati membri. Nel dettaglio, la direttiva ha modificato la direttiva 2001/18/CE, emendando l’art. 26-bis e introducendo gli articoli 26-ter e 26-quater. L’art. 26-ter prevede che, nel corso della procedura di autorizzazione o di rinnovo della stessa, gli Stati membri possano chiedere all’impresa richiedente di adeguare l’ambito geografico dell’evento transgenico evitando, così, in tutto o in parte il proprio territorio nazionale. Nel caso di rifiuto totale o parziale della richiedente, lo Stato membro può comunque vietarne la coltivazione ricorrendo a motivi legati a: a) politica ambientale; b) pianificazione urbana e territoriale; c) uso del suolo; d) impatto socio-economico; e) esigenza di evitare la presenza di OGM in altri prodotti; f) obiettivi di politica agricola; g) ordine pubblico. L’art. 26-quater ha, invece, previsto delle misure transitorie da seguire nelle more dell’attuazione della direttiva; nel dettaglio l’art. in questione prevede che gli stati membri possano richiedere l’adeguamento dell’ambito geografico di una richiesta di autorizzazione o di un’autorizzazione già concessa ai sensi della direttiva 2001/18/CE. Nel nostro ordinamento il recepimento della direttiva 2015/412/UE è stato avviato con due provvedimenti differenti: legge 114/2015 e legge 115/2015. Con la prima il Governo ha ricevuto delega per adottare il decreto di attuazione della direttiva mentre con la seconda (c.d. Legge Europea 2014) è stata data attuazione nel nostro ordinamento all’art. 26-quater della direttiva e, dunque, alle misure transitorie dallo stesso previste. Infatti, il MiPAAF, di concerto con il MATTM e il Ministero della Salute, previo parere positivo della Conferenza Stato-Regioni, ha già trasmesso alla Commissione europea le relative richieste di adeguamento dello spazio geografico. Infine, il Consiglio dei Ministri del 28 luglio 2016 ha approvato in via preliminare il decreto legislativo di attuazione della direttiva 2015/412/UE, sulla base della citata legge-delega 114/2015. L’etichettatura degli OGM Un ultimo argomento particolarmente rilevante è l’etichettatura degli OGM. Bisogna fare riferimento agli artt. 12 e 13 del reg. 1829/2003. Tali norme non si applicano agli “alimenti che contengono materiale che contiene, è costituito o prodotto a partire da OGM presenti in proporzione non superiore allo 0,9% degli ingredienti alimentari considerarti individualmente o degli alimenti costituiti da un unico ingrediente, purché tale presenza sia accidentale o tecnicamente inevitabile” (art. 12). In etichetta deve essere indicato l’ingrediente geneticamente modificato e deve esserci riferimento circa le differenze con l’alimento tradizionale dal punto di vista della composizione, dei valori o effetti nutrizionali, dell’uso previsto e delle implicazioni per la salute di certi segmenti della popolazione; infine occorre indicare se un alimento può dare luogo a preoccupazioni di ordine etico o religioso (art. 13). La tracciabilità degli OGM Il regolamento 1830/2003 prevede, infine, norme sulla tracciabilità dei prodotti OGM. È previsto che nella prima fase dell’immissione in commercio gli operatori debbano assicurare la trasmissione per iscritto all’operatore che riceve il prodotto delle seguenti informazioni: a) indicazione che il prodotto contiene OGM o è da essi costituito; b) indicazione degli identificatori unici assegnati agli OGM. Tali informazioni devono essere trasmesse per iscritto anche nelle fasi successive. L’identificatore unico è un codice numerico o alfanumerico che denomina e distingue in maniera precisa ciascuna singola specie di OGM. È questo in sintesi il quadro concettuale e normativo della materia: il nucleo di nozioni che nessun professionista del settore alimentare può ignorare. A partire da questa sintesi ristretta, sarà poi utile ed opportuno sviluppare un approfondimento lungo più direttrici, che riserviamo necessariamente ad ulteriori articoli. di Elio Palumbieri e Massimo Zortea
La biodiversità o “diversità biologica” viene definita dalla Convenzione internazionale sulla Diversità Biologica come: “la variabilità degli organismi viventi di qualsiasi fonte, inclusi, tra l'altro, gli ecosistemi terrestri, marini e gli altri ecosistemi acquatici e i complessi ecologici dei quali fanno parte; essa comprende la diversità all'interno di ogni specie, tra le specie e degli ecosistemi”. La biodiversità, a partire dalla ratifica della convenzione del 1992, ma per molti versi anche in epoche precedenti, è divenuta oggetto di tutele crescenti nell’Unione Europea ed anche in Italia. Già nel 1993, infatti, il Consiglio UE, con la decisione 93/626/CEE provvedeva a ratificare la Convenzione sulla biodiversità. Ma è solo in anni più recenti che l’attenzione del legislatore, prima regionale e poi nazionale (con singolare inversione logica), si è focalizzata su quella che viene chiamata la biodiversità agraria, per distinguerla da quella cosiddetta selvatica. La conservazione della diversità agrobiologica e, anche se in maniera più limitata e incompleta, il suo uso sostenibile nonché il giusto ed equo riparto dei benefici derivanti da tale uso costituiscono il substrato che caratterizza la recente novella introdotta con la l. 194/2015 (Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare). La legge in questione, pur se caratterizzata da evidenti limiti e imperfezioni, rappresenta un importante pietra miliare verso la creazione di un sistema nazionale coordinato per la tutela e la valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare. Il sistema istituzionale delineato dalla legge si impernia su quattro pilastri: - l’Anagrafe nazionale della biodiversità di interesse agricolo e alimentare; - la Rete nazionale della biodiversità; - il Portale nazionale; - il Comitato permanente per la biodiversità. Nell’Anagrafe nazionale della biodiversità di interesse agricolo e alimentare saranno censite tutte le risorse genetiche di interesse alimentare e agrario locali di origine vegetale, animale e microbica soggette a rischio di estinzione o di erosione genetica. Il processo di iscrizione all’anagrafe prevede un’istruttoria finalizzata all’accertamento di requisiti quali la corretta caratterizzazione e individuazione della risorsa, la sua adeguata conservazione, l’indicazione corretta del luogo di conservazione e l’eventuale possibilità di generare materiale di moltiplicazione (art. 3). La Rete nazionale della biodiversità di interesse agricolo e alimentare, per contro, svolgerà attività volte a preservare le risorse generiche di interesse alimentare ed agrario locali e sarà composta dalle strutture locali per la conservazione del germoplasma (il materiale ereditario che permette di preservare a livello genetico la biodiversità) ex situ e dagli agricoltori e dagli allevatori custodi (art. 4). Il Portale nazionale della biodiversità di interesse agricolo e alimentare è istituito per tre ordini di obiettivi fra loro collegati: costruire un sistema di banche dati delle risorse genetiche di interesse alimentare ed agrario locali; consentire la diffusione delle informazioni; consentire il monitoraggio dello stato di conservazione della biodiversità (art. 5). Infine, il Comitato permanente per la biodiversità di interesse agricolo e alimentare è istituito al fine di garantire il coordinamento delle azioni a livello statale, regionale e delle provincie autonome in materia (art. 8). Sempre al fine di portare a sistema la complessa situazione legislativa regionale e le prassi sviluppatesi negli ultimi decenni, anche per iniziativa di componenti sempre più vaste della società civile e del mondo delle imprese, la legge delinea anche alcuni rilevanti concetti, di cui stabilisce la definizione formale. In particolare, l’art. 2 contiene la definizione di “risorse genetiche di interesse alimentare ed agrario”, “risorse locali” e “agricoltori custodi”. Per “risorse genetiche di interesse alimentare ed agrario” si intende il materiale genetico di origine vegetale, animale e microbica, avente un valore effettivo o potenziale per l’alimentazione e per l’agricoltura. Con il termine “risorse locali” si identificano le risorse genetiche di interesse alimentare ed agrario: a) che sono originarie di uno specifico territorio; b) che, pur essendo di origine alloctona, ma non invasive sono state introdotte da lungo tempo nell’attuale territorio di riferimento, naturalizzate e integrate tradizionalmente nella sua agricoltura e nel suo allevamento; c) che, pur essendo originarie di uno specifico territorio, sono attualmente scomparse e conservate in orti botanici, allevamenti ovvero centri di conservazione o di ricerca in altre regioni o Paesi. Come si vede, le definizioni sono piuttosto generiche e dovranno essere messe a fuoco in sede regolamentare o giurisprudenziale. Gli “agricoltori custodi” sono, invece, gli agricoltori che si impegnano nella conservazione, nell’ambito dell’azienda agricola ovvero in situ, delle risorse genetiche di interesse alimentare ed agrario soggette a rischio di estinzione o di erosione genetica. Specularmente viene, inoltre, definita la categoria degli “allevatori custodi”, ovvero di coloro che impiegano analogo sforzo a favore delle risorse genetiche animali. La legge contiene poi alcune altre rilevanti disposizioni, la cui portata effettiva si potrà valutare solo nel tempo. Innanzitutto, l’art. 9 esclude dal novero delle invenzioni suscettibili di brevetto tutte le varietà vegetali iscritte nell’Anagrafe nazionale e tutte le varietà da cui derivano produzioni d.o.p. o i.g.t. o, ancora, specialità tradizionali garantite da cui derivano i prodotti agroalimentari tradizionali. L’art. 10 poi istituisce un fondo di € 500.000 annui per la tutela della biodiversità di interesse agricolo e alimentare al fine di sostenere le azioni degli agricoltori e degli allevatori. La sua concreta attivazione è però demandata, come usualmente in simili casi, ad un decreto ministeriale ad oggi non emanato. L’art 11, invece, stabilisce che il diritto alla vendita diretta e in ambito locale di sementi o materiali di propagazione relativi alle varietà di sementi iscritte nel registro nazionale è riconosciuto agli agricoltori che le producono. Agli stessi è anche riconosciuto il diritto al libero scambio all’interno della Rete nazionale. L’art 12, nel prevedere che Stato, Regioni e Province autonome possano realizzare periodiche campagne promozionali della biodiversità, istituisce i c.d. itinerari della biodiversità al fine di promuovere la conoscenza delle risorse genetiche di interesse alimentare ed agrario iscritte nell’Anagrafe, anche tramite l’indicazione dei luoghi di conservazione, delle aziende agricole o dei luoghi di commercializzazione dei prodotti. Particolarmente interessante è l’art. 13, a mente del quale il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, le regioni e le provincie autonome, anche con il contributo dei consorzi di tutela e di altri soggetti riconosciuti, possano promuovere l’istituzione di comunità del cibo e della biodiversità di interesse agricolo e alimentare. Tali comunità vengono istituite al fine di studiare, recuperare e trasmettere conoscenze, realizzare forme di filiera corta, vendita diretta, scambio e acquisto di prodotti agricoli, studiare e diffondere pratiche proprie dell’agricoltura biologica e di altri sistemi a basso impatto ambientale, studiare, recuperare e trasmettere saperi tradizionali e, infine, realizzare orti didattici, sociali, urbani e collettivi. L’art 14 istituisce la giornata nazionale della biodiversità il 20 maggio. Va peraltro ricordato che il 22 maggio, tradizionalmente, si celebra la giornata mondiale della biodiversità e sara opportuno chiarire come raccordare le due ricorrenze.L’art 15, invece, prevede che le regioni possano promuovere progetti nelle scuole finalizzati alla conoscenza dei prodotti agroalimentari e delle risorse locali da parte dei giovani studenti. Infine, a norma dell’art. 16, “il piano triennale di attività del consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria, prevede interventi per la ricerca sulla biodiversità di interesse agricolo e alimentare e sulle tecniche necessarie per favorirla, tutelarla e svilupparla nonché interventi finalizzati al recupero di pratiche corrette in riferimento alla natura umana, all’alimentazione animale con alimenti non geneticamente modificati e al risparmio idrico”. Per raggiungere questi scopi il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali destina una quota delle risorse iscritte annualmente nello stato di previsione del Ministero. Ci avviciniamo al primo anno dalla promulgazione della legge. Quali conclusioni possiamo trarre? Lo stato di attuazione di questo importante testo normativo è ancora piuttosto limitato. 194 In particolare, l’Anagrafe ad oggi non risulta ancora istituito, così come non è stato ancora emanato il decreto ministeriale di istituzione del fondo di cui all’art. 10. Ma anche quando verrà pienamente attuata, la legge 194 – come hanno rilevato i primi commenti della dottrina – resterà solo un primo passo, da completare. In effetti sarebbe stata necessaria una impostazione fin da subito più articolata e di ampio respiro, che tenesse conto anche di altri aspetti, destinati a divenire sempre più rilevanti: si pensi al tema del capitale naturale e del valore economico della biodiversità (c.d. Economics of Ecosystems and Biodiversity; vedasi ad es. www.teebweb.org). E di fronte a temi più ampi e moderni, anche gli strumenti normativi, istituzionali e amministrativi avrebbero potuto essere più innovativi. Un esempio citato da Lorenza Paoloni nel suo pregevole commento alla legge (Diritto Agroalimentare 1/2016 pg. 151-176) è quello dei diritti degli agricoltori sul patrimonio genetico, oramai ampiamente inclusivo di componenti culturali oltreché biologiche. Altro grande assente è l’apparato di misure connesse al regime del ABS (Access and Benefit Sharing), in particolare i tre meccanismi disciplinati dal Protocollo di Nagoya: autorizzazione di accesso alle risorse genetiche, consenso preventivo informato e condizioni reciprocamente concordate. Non è un caso del resto che l’Italia abbia aderito al Protocollo ma ancora non lo abbia ratificato, a differenza dell’Unione Europea e di oramai numerosi stati membri. Siamo quindi ancora piuttosto lontani da una logica politica di biodiversità come bene comune, sottratto ontologicamente a gestioni e configurazioni privatistiche. Ed anche da una gestione del bene comune retta su meccanismi di effettiva partecipazione collettiva: partecipazione di tutti i cittadini sia alle responsabilità di custodia (a quando una regolamentazione di filiera nel suo complesso?) sia ai processi decisionali. Il percorso è però avviato. Spetta a noi tutti, in particolare imprenditori e professionisti, condurlo avanti. di Massimo Zortea e Elio Palumbieri
A chi interessa l’etichettatura dei vini? L’argomento, apparentemente, sembra la classica materia da ristretti addetti ai lavori: produttori, distributori, esercenti e loro consulenti. Può interessare ai liberi professionisti? E agli imprenditori al di fuori del comparto vitivinicolo? Se poniamo la domanda in modo leggermente diverso, ci daremo risposte sorprendenti: a cosa serve l’etichettatura dei vini? In primo luogo, ha la funzione di tutelare il consumatore. Costituisce, quindi, materia di assoluto interesse per produttori, imbottigliatori, importatori/esportatori ma anche per tutta la vasta gamma di fruitori. E per i loro consulenti: tecnici, legali, contabili, commerciali eccetera. L’interesse è sia positivo, nel senso di incremento delle proprie potenzialità di produzione (qualità e quantità) e fatturato, sia negativo, nel senso di attenta valutazione dei rischi connessi alla violazione delle norme vigenti e dei conseguenti costi. Vediamo dunque innanzitutto quali sono gli elementi che devono essere obbligatoriamente riportati in etichetta. In primis è opportuno sottolineare che, per essere definita “vino”, una bevanda deve necessariamente essere prodotta tramite processo di fermentazione alcolica totale o parziale di uve fresche o di mosti di uve e deve avere un contenuto alcolometrico compreso tra il 9%vol e il 15%vol (Regolamento UE 479/2008). Il volume nominale e la percentuale di alcol su volume rappresentano le prime due categorie di informazioni obbligatorie in etichetta. Il volume nominale deve essere espresso in “l”, “cl” o “ml” con un’altezza variabile a seconda della quantità presente: 6 mm in caso di contenuto superiore ai 100 cl, 4 mm se inferiore a 100 cl e superiore a 20 cl, 3 mm se compreso tra 20 cl e 5 cl, 2 mm se inferiore a 5 cl. L’indicazione va accompagnata dal simbolo “e” che indica il rispetto delle modalità di controllo per la misurazione della quantità nominale. Il simbolo deve avere una grandezza di 3 mm ed essere nello stesso campo visivo della quantità. La percentuale di alcol sul volume va indicata in etichetta, anche in questo caso, con grandezza variabile a seconda della percentuale di alcol effettiva: nel caso in cui il volume sia superiore a 100cl i caratteri devono avere altezza minima di 5 mm; nel caso in cui sia compreso tra i 100cl e i 20cl devono avere altezza minima di 3 mm; l’altezza dev’essere almeno di 2 mm se il valore nominale è pari o inferiore a 20 cl. È, in ogni caso, prevista una soglia di tolleranza pari allo 0,8% per i vini DO e IG invecchiati in bottiglie per oltre tre anni, per i vini frizzanti, frizzanti liquorosi, da uve stramature, per i vini liquorosi, per i vini spumanti, spumanti di qualità e spumanti gassificati. Elemento obbligatorio di particolare rilevanza è quello relativo alla denominazione di vendita. La denominazione di vendita indica il prodotto contenuto nella bottiglia. La denominazione “vino” viene utilizzata per i vini varietali (vini senza IG o DO) mentre le denominazioni “vino rosso”, “vino rosato” o “vino bianco” possono essere utilizzati solo nel caso in cui si tratti di prodotti DO o IG. I vini varietali, inoltre, possono essere prodotti solo con uno dei sette vitigni internazionali indicati dall’allegato 4 del D.M. 13 agosto 2012: Cabetfranc, Cabernet Sauvignon, Cabernet, Chardonnay, Merlot, Sauvignon, Syrah. I vini DO o IG devono indicare le espressioni “di origine protetta” (o le sigle D.O.C., D.O.P., D.O.C.G.) o “Indicazione Geografica Protetta” (o le sigle I.G.T., I.G.P.) seguite dal nome della DO o della IG. Eventualmente dopo queste indicazioni possono essere inserite le menzioni “riserva”, “classico” o “superiore” ma la loro grandezza non deve superare quella della denominazione. Altro elemento obbligatorio è quello relativo all’indicazione dell’azienda imbottigliatrice. La questione è particolarmente rilevante sotto il profilo della tutela del consumatore. Scopo della previsione è, infatti, rendere più semplice per il consumatore rintracciare l’ultimo anello della filiera produttiva (l’imbottigliatore) il quale, ovviamente, avrà poi diritto di regresso sul produttore nel caso di risarcimento del danno da prodotto difettoso. Nel caso di vino importato, in etichetta deve essere indicato il nome dell’importatore e non quello dell’imbottigliatore. L’indicazione del nome deve avvenire tramite nome o ragione sociale indicata per esteso oltre a comune e stato membro di appartenenza, preceduti dai termini “imbottigliato da”. Al posto dell’imbottigliatore è, inoltre, possibile utilizzare un codice ICQRF (un codice identificativo dell’azienda). In etichetta deve essere riportata anche l’indicazione del lotto. Si tratta di un aspetto particolarmente rilevante in quanto il numero di lotto è, insieme all’indicazione dell’imbottigliatore, il primo elemento utile alla rintracciabilità del prodotto. Infatti il numero di lotto indica un insieme di unità di vendita di bottiglie che sono prodotte in circostanze identiche. Le unità di vendita, quindi, vengono contraddistinte da un codice che viene scelto dall’imbottigliatore (o dal produttore, a seconda dei casi) e apposto in etichetta. È obbligatoria anche l’indicazione della provenienza. È elemento necessario dell’etichetta a norma dell’art. 55 Regolamento 607/2009 e deve essere espressa con diciture quali “vino di” o “prodotto in”. Nel caso in cui il vino provenga da più paesi UE dovrà essere indicata la dicitura “vino della Comunità europea” o “miscela di vini di diversi Paesi della Comunità europea”. Se il vino proviene da Paesi extra-UE la dicitura dovrà essere “miscela di diversi Paesi non appartenenti alla Comunità europea”. I vini DO/IG devono riportare la dicitura “vino di” o “prodotto in”, completati dall’indicazione dello Stato di provenienza delle uve. Il vino può contenere sostanze in grado di causare, in alcuni soggetti, reazioni allergiche. Per questo motivo l’etichetta deve indicare l’eventuale presenza di allergeni e, in particolare, di solfite, anidride solforosa, uovo, proteina dell’uovo, derivati dell’uovo, lisozima dell’uovo, ovoalburmina, latte, derivati del latte, proteina del latte. Oltre agli elementi obbligatori, in etichetta possono essere presenti anche elementi facoltativi. In particolare, al settore vitivinicolo si applicano la direttiva 2000/13/CE e il Regolamento (UE) n. 1169/2011 i quali prevedono che le informazioni non obbligatorie presenti in etichetta non devono indurre in errore il consumatore su caratteristiche e/o proprietà che il prodotto non possiede, non devono essere ambigue o confuse e, ove necessario, devono essere basate su dati scientifici pertinenti. Il diritto alimentare negli ultimi anni si è fatto strada a suon di normative europee e poi nazionali, divenendo oggetto quotidiano di incontro e scontro per moltissime imprese, professionisti, amministrazioni pubbliche, enti non profit.
Con l’incremento delle regole crescono i rischi di violazioni e la necessità di rivolgersi a soggetti con specifica competenza e professionalità. Chiunque si trovi a operare nel vasto mondo degli alimenti e delle sostanze alimentare non può non munirsi di un esperto di diritto alimentare. Ma cos’è il diritto alimentare? Ad una prima ricognizione, ricomprende l’insieme di norme inerenti ogni aspetto della produzione, trasformazione e commercializzazione degli alimenti e delle sostanze ad uso alimentare. È facilmente intuibile la vastità e la complessità della materia, che investe ogni fase della filiera di produzione e commercializzazione sin dalla nascita dell’impresa alimentare. Ma cosa rende un esperto di diritto alimentare veramente all’altezza della situazione? Un esperto di diritto alimentare deve sapersi muovere tanto nell’ambito stragiudiziale quanto in quello giudiziale. Deve sapersi destreggiare nella consulenza su: sicurezza alimentare, informazioni al consumatore, informazione alimentare ed etichettatura dei prodotti, pubblicità alimentare, informazioni di processo e di prodotto volontarie o obbligatorie. Importante anche saper gestire i rapporti commerciali e i rapporti con le autorità di settore. L’esperto deve saper classificare i prodotti alimentari, individuare e gestire i loro caratteri distintivi, saper reperire ed applicare le regole dei mercati alimentari, nazionali e internazionali, quelle delicatissime sulla formazione obbligatoria degli operatori professionali ed anche tutte quelle inerenti gli oneri e responsabilità del produttore, gli adempimenti gestionali. Può spingersi fino alla tutela della concorrenza e della proprietà intellettuale sui prodotti e sui processi produttivi. L’esperto viene consultato anche sulle attività di import/export alimentare, sulla fiscalità alimentare, sugli adempimenti in materia ambientale e di sicurezza nel lavoro correlati alla produzione, trasformazione e distribuzione di alimenti, connessi (si pensi alla gestione di imballaggi e rifiuti di imballaggio). Frequenti anche i consulti su: tutela del consumatore, tutela risarcitoria del produttore, dell’intermediario e del consumatore, illeciti penali e amministrativi alimentari. Altro ambito dove l’esperto può dare un valido contributo – anche ai professionisti che progettano strutture, processi produttivi o piani commerciali eccetera – è quello dei regimi autorizzativi e delle norme agevolative in ambito alimentare. Ma può giungere a dare preziosi suggerimenti o informazioni in materia di pianificazione strategica delle politiche alimentari e agroalimentari, specie a livello locale. Deve poi anche sapersi destreggiare in contesto giudiziale. Qui viene in rilievo la figura dell’avvocato esperto di diritto alimentare. L’assistenza concerne in particolare: illeciti penali e amministrativi alimentari, responsabilità civile alimentare, vertenze contrattuali, arbitrati, istanze e ricorsi amministrativi e giurisdizionali, ricorsi tributari e doganali Un professionista a tutto tondo, insomma, chiamato a incrociare diritto civile, penale, amministrativo, diritto dell’Unione Europea e diritto comparato, e naturalmente diritto internazionale (si pensi ad es. alla proprietà industriale o alle denominazioni d’origine). Inoltre un professionista capace di relazionarsi con altre figure professionali: ad esempio, architetti e ingegneri nella fase di progettazione o allestimento delle strutture, degli ambienti di lavoro, degli impianti; chimici e biologi nell’ambito della produzione alimentare. Nelle prossime puntate capiremo insieme quanto è utile per aziende, professionisti, pubbliche amministrazioni avvalersi di un esperto di diritto alimentare e come costruire insieme un efficace rapporto professionale. Di Elio Palumbieri e Massimo Zortea
La materia della sicurezza alimentare si presenta indubbiamente complessa. Innanzitutto, sono necessari dei chiarimenti di tipo concettuale. Occorre infatti distinguere tra “food security” e “food safety”. Con il termine food security si intende la disponibilità concreta in quantità sufficienti di cibo e scorte alimentari. Per food safety, invece, intendiamo la salute alimentare e l’igiene degli alimenti e dei mangimi. È proprio di questo secondo aspetto che ci occuperemo in questo approfondimento. La legislazione alimentare, infatti, prevede specifiche norme dedicate alla sicurezza e all’igiene alimentare, prescrivendo regole e controlli agli operatori del settore alimentare in tutte le fasi della filiera produttiva: produzione, trasformazione e commercializzazione. Alcune di queste norme stabiliscono procedure che, a seconda dei casi, possono essere obbligatorie o di applicazione volontaria. Tra le prime è opportuno menzionare il sistema HACCP mentre le seconde vengono, perlopiù, riassunte e codificate nello Standard ISO 22000. La procedura maggiormente nota e, tra l’altro, obbligatoria, è quella basata sul sistema HACCP (Hazard-Analysis and Critical Control Points). Si tratta di un protocollo ideato originariamente dalla N.A.S.A. con lo scopo di assicurare che gli alimenti forniti agli astronauti non avessero effetti negativi sulla salute o potessero mettere a rischio il successo delle missioni. Il protocollo è stato poi mutuato anche per la produzione e il consumo di massa di alimenti, con lo stesso fine di tutela della loro salubrità. Esso consiste nell’analisi completa di tutte le fasi produttive al fine di evitare il più possibile rischi sotto il profilo dell’igiene e della sicurezza alimentare. Il nostro ordinamento si è adeguato al sistema di controllo HACCP con il d.lgs. n. 155/1997 in attuazione della direttiva 93/43/CEE sostituita, poi, dal Reg. 852/2004 attuato con il d.lgs. 193/2007. Per poter correttamente realizzare il piano HACCP è necessario seguire cinque prassi e sette principi fondamentali. Le prassi sono: - individuazione di un “responsabile HACCP” o di una squadra HACCP; - descrizione del prodotto; - identificazione della sua destinazione d’uso; - costruzione del diagramma di flusso e dello schema d’impianto; - conferma sul posto del diagramma di flusso e dello schema d’impianto. I principi sono: - analisi dei pericoli associati a ogni fase del processo; - determinazione dei punti critici di controllo; - determinazione dei limiti critici; - determinazione del sistema di monitoraggio; - determinazione delle azioni correttive; - determinazione delle procedure di verifica; - determinazione del sistema di gestione della documentazione. Precedentemente al pacchetto igiene, che analizzeremo tra poco, la legislazione alimentare comunitaria escludeva esplicitamente la produzione primaria dall’applicazione del sistema HACCP. Con il pacchetto igiene, invece, non solo tale esclusione è stata rimossa ma è stata anche tracciata la strada verso una definitiva imposizione del protocollo HACCP alle imprese agricole. Oltre al sistema HACCP, particolarmente significativo è lo standard ISO 22000 per la gestione della sicurezza nel settore alimentare. Tale standard nasce con il fine di essere compatibile con le altre norme internazionali sui sistemi di gestione e, di conseguenza, con questi può essere integrato. In particolare, l’ISO 22000 è applicabile ad ogni azienda che operi nella filiera alimentare in modo diretto e indiretto: si pensi, ad esempio, oltre che a produttori, trasformatori e distributori di alimenti e mangimi, anche a produttori e distributori di packaging alimentare. Sia il sistema HACCP che la norma standard ISO 22000 meritano un approfondimento, che ovviamente dovremo proporre in separato articolo. Normativa comunitaria: il pacchetto igiene La normativa comunitaria riveste un ruolo chiave in materia di food safety ed è anche piuttosto articolata. Primo punto di riferimento è il Regolamento dell’Unione Europea n. 178/2002, che stabilisce i principi ed i requisiti generali della legislazione alimentare. Particolarmente rilevante, per quanto qui interessa, è l’articolo 18 del regolamento in questione che prescrive la rintracciabilità dei prodotti alimentari e, in particolare, degli alimenti, dei mangimi, degli animali destinati alla produzione alimentare e di qualsiasi altra sostanza destinata o atta a entrare a far parte di un alimento o di un mangime. Per com’è concepita nel Regolamento 178/2002, la rintracciabilità non costituisce un’obbligazione di mezzi ma di risultato; ciò significa che, aldilà dei mezzi utilizzati dall’OSA (Operatore del Settore Alimentare, definito nel regolamento come “la persona fisica o giuridica responsabile di garantire il rispetto delle disposizioni della legislazione alimentare nell’impresa alimentare posta sotto il proprio controllo”), ciò che conta è la rintracciabilità dei prodotti, sia in entrata che in uscita. Ciascun OSA, quindi, deve essere in grado di fornire alle autorità competenti informazioni sia sulla la provenienza dei suoi approvvigionamenti che sulle imprese alle quali ha fornito i propri prodotti. Il regolamento non si limita a stabilire i principi generali della materia ma istituisce anche la European Food Safety Authority (E.F.S.A.), autorità europea per la sicurezza alimentare che svolge, principalmente, attività di consulenza in materia di gestione del rischio per la Commissione europea, Parlamento europeo e Stati Membri UE. Parallela e complementare è la disciplina tracciata dal c.d. “pacchetto igiene”, ovvero il trio di Regolamenti: - 852/2004 sull’igiene dei prodotti alimentari, - 853/2004 sull’igiene degli alimenti di origine animale. - 854/2004 sull’organizzazione di controlli ufficiali sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano. TABELLA 1 - I contenuti del pacchetto igiene Regolamento 852/2004 Igiene prodotti alimentari Regolamento 853/2004 Igiene alimenti di origine animale Regolamento 854/2004 Organizzazione di controlli Il Regolamento 852/2004 definisce genericamente il sistema di controllo in questione senza specificarne in dettaglio il funzionamento; neppure la Commissione Europea ha mai approfondito questo aspetto pur continuando a far riferimento ai manuali elaborati nel tempo. È dunque al sistema di autocontrollo HACCP che bisogna fare riferimento, specie ove si consideri che il Reg. 852/2004 ha esteso l’applicabilità di tali controlli alla produzione primaria che comprende tutte le fasi della produzione, dell’allevamento o della coltivazione dei prodotti primari, compresi il raccolto, la mungitura e la produzione zootecnica precedente la macellazione e che lo stesso si applica a tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione degli alimenti. Il riferimento è chiaro: le norme igieniche che vengono prescritte dal regolamento in questione si rivolgono sia all’OSA che all’agricoltore. Il Capo II del Reg. 852/2004, inoltre, stabilisce che la produzione primaria deve rispettare i requisiti generali in materia di igiene previsti dalla parte A dell’allegato I che trova applicazione non solo alla produzione in senso stretto ma anche alle fasi correlate quali trasporto e magazzinaggio. L’allegato II del Regolamento, invece, stabilisce le norme igieniche per i prodotti alimentari diversi da quelli provenienti dal settore primario. Il Regolamento 853/2004, per contro, detta regole specifiche applicabili agli alimenti di origine animale. Si tratta di norme speciali rispetto alle norme generali dettate dal Reg. 852/2004. E’ lo stesso art. 2 a stabilire che, ai fini del regolamento si applicano le definizioni contenute nel Reg. 178/2002, nel Reg. 852/2004 e, infine, nello stesso regolamento 853/2004. Stesso discorso vale anche per il Reg. 854/2004 che, pur rinviando alle generali definizioni del Reg. 852/2004, individua norme specifiche per l’organizzazione di controlli ufficiali sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano. Le norme del Reg. 854/2004, peraltro, non possono essere lette separatamente da quelle del successivo Reg. 882/2004, intervenuto per indicare i controlli funzionali al rispetto delle norme in materia di alimenti, mangimi e per la salute degli animali. L’articolo 3 del Reg. 882/2004 prevede che gli Stati membri garantiscono che i controlli ufficiali siano eseguiti periodicamente, in base ad una valutazione dei rischi e con frequenza appropriata, per raggiungere gli obiettivi del presente regolamento; per assolvere a questo compito, peraltro, gli Stati Membri possono designare specifiche autorità (art 4) le quali possono anche delegare compiti specifici ad altri enti (art 5). Come già precisato, il quadro appena tracciato fornisce un quadro complessivo dei vari tasselli del mosaico, ognuno dei quali richiede una apposita trattazione in successivi articoli di approfondimento. |
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April 2022
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