Qualche giorno fa vi avevamo parlato della ritenuta di acconto del 21% sui canoni degli affitti turistici. Ebbene il Tar del Lazio, con ordinanza 5442/2017, ha respinto l’istanza di Airbnb che aveva chiesto di annullare il relativo provvedimento.
Il giudice, infatti, ha bocciato le argomentazioni dell’azienda per le seguenti motivazioni: 1) i denunciati effetti distorsivi della concorrenza, derivanti dalla imposizione degli obblighi di versamento della ritenuta in esame, sono, per quanto riguarda il rischio di perdita di clientela a favore di altri concorrenti, meramente eventuali. In questo punto il TAR ha evidenziato che, in realtà, Airbnb potrebbe, solo in via eventuale, subire un danno dal versamento della ritenuta. Nessuna certezza, infatti, può ritenersi sussistente sul punto. 2) per quanto riguarda inoltre gli oneri di riconversione e riorganizzazione imprenditoriale, ai fini di ottemperare alle misure previste dal provvedimento impugnato, essi non sono stati esattamente quantificati e, presumibilmente, non sono di entità tale da pregiudicare la competitività dell'azienda, considerato il suo volume d'affari in Italia, come indicato in ricorso. Nel secondo punto il Giudice ha evidenziato che, pur dovendo Airbnb sostenere delle spese per riorganizzare l’azienda al fine di adempiere all’obbligo di versamento della ritenuta, tali spese non possono in alcun modo pregiudicare la competitività dell’azienda, specie se si considera il suo volume di affari in Italia. 3) le misure attinenti agli obblighi di versamento della ritenuta non si palesano discriminatorie laddove esse ragionevolmente si applicano solo agli intermediari che intervengono nel pagamento del canone di locazione. In questo punto il TAR ha sottolineato che le misure non possono essere ritenute discriminatorie: queste si applicano, infatti, solo a quegli intermediari che, in qualche modo intervengono nel pagamento del canone. 4) Ritenuto infine che, nella comparazione tra i diversi interessi pubblici e privati coinvolti, appare comunque prevalente l'interesse pubblico al mantenimento degli effetti del provvedimento in esame, al quale peraltro gli altri operatori del mercato si sono già adeguati, fermo restando che l'amministrazione potrà, nella sua discrezionalità, valutare l'opportunità di concedere alla parte ricorrente un breve termine per effettuare gli adempimenti e i pagamenti in scadenza alla data del 16 ottobre 2017, che la parte ricorrente ha dichiarato di non aver assolto in considerazione delle aspettative legate alla presente vicenda giudiziaria. Infine, il Giudice ha ammesso la possibilità, per l’amministrazione, di concedere ad Airbnb un periodo di tempo utile ad adeguarsi alla norma. La società, infatti, non lo aveva fatto precedentemente proprio in attesa della decisione qui commentata. L’origine dei pomodori con cui vengono prodotti concentrati, passati e salse è sempre stata al centro delle discussioni. Da oggi le aziende dovranno indicare anche questa informazione in etichetta specificando dove il pomodoro è stato coltivato e trasformato.
La norma, entrata in vigore dopo la firma del decreto interministeriale dei ministri Martina (politiche Agricole) e Calenda (sviluppo economico), introduce la sperimentazione per due anni dell’etichettatura d’origine. La medesima modalità è stata utilizzata per latte e derivati, riso e pasta. Le aziende avranno, comunque, un periodo transitorio finalizzato all’adeguamento al nuovo sistema e, quindi, alla predisposizione delle nuove etichette e allo smaltimento dei prodotti già etichettati. La norma che, come le altre, anticipa, in sostanza, gli effetti dell’art. 26 par. 3 del reg UE n. 1169/2011, si applica a tutti i derivati: conserve, concentrato, sughi e salse composti per almeno il 50% da derivati del pomodoro. Le confezioni di questi alimenti prodotti in Italia recheranno in etichetta l’indicazione del Paese di coltivazione del pomodoro e quello del Paese di trasformazione dello stesso. Se le operazioni avvengono interamente in Italia potrà essere utilizzata la dicitura “Origine del pomodoro: Italia” mentre se avvengono in più Paesi la dicitura sarà “Paesi UE e NON UE”. Le indicazioni, inoltre, dovranno essere chiaramente leggibili e indelebili e saranno apposte in etichetta in un punto evidente e nello stesso campo visivo. Dopo il blocco delle importazioni è arrivato il via libera del Ministero della Sanità cinese Lo scorso settembre Wu Jing-chun, vicedirettore del Dipartimento per i Rapporti con l’Unione Europea del Ministero del Commercio di Pechino, aveva annunciato lo stop delle importazioni del gorgonzola e degli altri formaggi erborinati in Cina. Il dirigente, durante un incontro con la stampa all’Ambasciata italiana di Pechino, aveva spiegato che la misura non nascondeva un problema politico ma che la Repubblica Popolare non aveva ancora dato piena attuazione ai regolamenti interni relativi alle procedure di importazione.
Dopo alcune settimane di controlli da parte delle competenti autorità cinesi, la situazione si è sbloccata permettendo nuovamente l’ingresso dei prodotti. La Cina, dunque, ricomincerà ad importare i formaggi italiani erborinati anche grazie al lavoro del Ministero della Sanità cinese che ha, peraltro, confermato la salubrità dei prodotti nostrani nonostante questi superino i limiti di fermenti e lieviti previsti dalla normativa cinese. Ad essere maggiormente colpite dal provvedimento erano state Italia e Francia che, oggi, lavorano insieme ad un incontro tra delegazioni di imprenditori e autorità italiane, francesi e cinesi al fine di illustrare i criteri di sicurezza che l’industria casearia garantisce sui formaggi erborinati. Tra il 2015 e il 2016 le vendite di formaggi italiani sono aumentate del 42% e nei primi 7 mesi del 2017 c’è stato un aumento del 32% rispetto allo stesso periodo del 2016. depositata alla Camera una proposta di legge per mettere fine alla pratica di inviare bollette con una cadenza di 28 giorni ,Le tanto discusse bollette telefoniche a 28 giorni potrebbero essere al capolinea. E’ stata, infatti, depositata alla Camera una proposta di legge dalla deputata Alessia Morani (PD) “per mettere fine alla pratica, adottata da alcuni operatori di telefonia e pay tv, di inviare bollette con una cadenza di 28 giorni”.
La proposta di legge in questione, nelle parole della sua firmataria, "introduce l'obbligo della fatturazione dei servizi su base mensile; dispone un irrobustimento dei poteri di vigilanza da parte delle competenti Autorità; un aumento delle sanzioni da queste ultime comminabili e la restituzione delle somme indebitamente percepite da parte degli operatori in caso di violazione dell'obbligo di cadenza mensile". La proposta, inoltre, limita "la possibilità di modificare, da parte delle aziende di comunicazione elettronica, in modo unilaterale le condizioni contrattuali". Tali modifiche "saranno ammesse solo con un giustificato motivo obiettivo". In aggiunta a quanto appena detto, la proposta prevede, con chiaro intento deterrente, un indennizzo forfettario, non inferiore ad euro 50, che l’operatore sanzionato è tenuto a corrispondere al consumatore interessato dalla illegittima fatturazione. Il divieto di cessione gratuita previsto dal Decreto Legge Mezzogiorno E’ stato approvato alla Camera il Decreto Legge Mezzogiorno il quale definisce i nuovi requisiti per le buste di spessore inferiore ai 15 micron. Parliamo, ad esempio, dei sacchetti shopper utilizzati per la spesa, di quelli che vengono messi a disposizione per imbustare frutta e verdura sfusi o anche pesce, carne, prodotti di gastronomia e di forno.
Tutti questi sacchetti, a partire dall’inizio del 2018, dovranno essere composti, almeno per il 40% di materia prima proveniente da fonte naturale e, quindi, biodegradabili e compostabili. La percentuale di materia prima naturale presente nei sacchetti, tuttavia, è destinata a salire: 50% nel 2020 e 60% nel 2021. Tutto ciò, tuttavia, ha un costo che, come spesso accade, ricade sul consumatore. I sacchetti, infatti, non saranno più disponibili gratuitamente ma tutti verranno ceduti a pagamento. Il Decreto, infatti, vieta la cessione gratuita. Il prezzo sarà simile a quello che, ormai da qualche anno, viene applicato per le shopper acquistabili in cassa: 10 centesimi circa. Con la sentenza in questione la Suprema Corte ha dichiarato l’attendibilità del riconoscimento avvenuto tramite il social network di Mark Zuckerberg Uno degli argomenti più discussi circa il rapporto tra utilizzo dei social network e diritto è quello relativo alla possibilità di riconoscere un imputato tramite foto e informazioni presenti sul profilo online. Qual è, infatti, il limite tra privacy e esigenza di giustizia? Quando un soggetto può esere riconosciuto tramite un profilo social? E, in giuridichese, quali sono i limiti formali imposti dagli artt. 213 e 214 c.p.p.?
Ormai assistiamo da tempo alla contaminazione delle tradizionali pratiche investigative con le tecnologie moderne, tra cui proprio i social network. Vi avevamo, ad esempio, già parlato della possibilità di utilizzare il malware Trojan come strumento di indagine (qui: https://science.closeupengineering.it/malware-trojan-strumento-indagine/11227/) introdotto con la riforma Orlando. Quella novità, introdotta dal legislatore, viene, in questi giorni, affiancata da una decisione della Corte di Cassazione. In questo caso, però, al centro della sentenze c’è facebook e, in particolare, la possibilità di riconoscere un imputato tramite lo stesso social network. La sentenza in questione è la n. 45090/2017, con la quale la Suprema Corte ha accertato l’attendibilità del riconoscimento avvenuto tramite il social network di Mark Zuckerberg. Il ricorso in Cassazione, in particolare, era stato proposto proprio dall’imputato. Questo, condannato per concorso in rapina e porto d’armi, sosteneva non solo l’inattendibilità del riconoscimento attuato nelle modalità appena esposte ma, ulteriormente, riteneva che, in ogni caso, questo avrebbe dovuto essere seguito da un riconoscimento operato secondo le tradizionali modalità. Ebbene, la Corte, con la pronuncia sopra menzionata, ha rigettato il ricorso sostenendo la genuinità e attendibilità del riconoscimento effettuato dalla persona offesa, nonostante fosse avvenuto tramite Facebook. Cooperazione
Ho sempre pensato, per qualche assurdo motivo nato nella mia testa durante gli studi universitari, che fosse questa la parola-chiave per il futuro delle piccole imprese. D’altronde non si può negare che il momento economico e le sfide dei mercati sempre in evoluzione richiedano almeno una profonda riflessione sul tema. Per questo motivo ho sempre studiato, approfondito e messo in pratica il contratto di rete d’impresa. E ne voglio parlare, seppur brevemente, qui, con particolare focus sulla filiera agroalimentare. Cos’è una filiera ? Per filiera si intende quell’insieme dei settori produttivi e delle relative imprese coinvolti nella realizzazione di una determinata produzione. Insomma, nella definizione rientrano tutte quelle imprese che, ad esempio, curano la coltivazione, la trasformazione e la commercializzazione del prodotto agricolo. Come nasce il contratto di rete d’impresa? Il contratto di rete nasce con il decreto legge 5/2009 convertito dalla legge 33/2009. La normativa definisce il contratto di rete come “un accordo tra uno o più imprenditori, con lo scopo di accrescere la propria capacità innovativa e competitività sul mercato”. Cosa serve per stipulare un contratto di rete? In primo luogo è necessario un programma. Il programma comune di rete è uno strumento tramite il quale le imprese retiste indicano gli obiettivi che intendono raggiungere, le modalità tramite le quali raggiungerli e le regole vigenti nei rapporti tra gli imprenditori stessi. Elementi obbligatori del contratto sono: -Denominazione delle imprese aderenti: occorre, infatti, indicare tutti i dati utili all’identificazione delle imprese; -Obiettivi di innovazione e competitività: le reti d’impresa nascono per perseguire questi obiettivi, comunemente traducibili in R&D e/o costruzione di brand identity. Tali scopi vanno indicati anche nel contratto; -Durata del contratto; -Modalità di adesione di altri imprenditori; -Procedure decisionali delle imprese retiste Elementi facoltativi del contratto: -Fondo patrimoniale comune: è costituito dai contributi delle imprese partecipanti e dai beni acquistati dalla rete stessa; -Organo comune: è il soggetto incaricato di gestire le operazioni della rete e dare esecuzione al programma della stessa. Forma delle reti d’impresa Si distingue in rete soggetto e rete contratto. Nel primo caso parliamo di un vero e proprio soggetto giuridico, distinto dalle imprese retiste e autonomo. In questo caso è obbligatoria l’istituzione sia del fondo patrimoniale che dell’organo comune. Nel secondo caso, invece, parliamo di un contratto stipulato dalle imprese che, però, non istituisce un nuovo soggetto ma si limita a regolare i rapporti tra le imprese retiste. Questa è la forma maggiormente diffusa nel settore alimentare. Reti di impresa e agricoltura Nel settore agrifood le reti d’impresa non sono diffuse come dovrebbero. Un po’ perché un loro pieno riconoscimento è solo arrivato nel 2014 con la legge 91 (decreto competitività) e un po’ perché vi è sempre stata una certa resistenza all’aggregazione. Resistenza dovuta, principalmente, alla paura di perdere la propria identità. Una paura non totalmente ingiustificata che, però, deve fare i conti con due fattori. Il primo: il mercato. Oggi occorre essere competitivi, con un prodotto di qualità e/o un prezzo aggressivo. Da soli, specie se si è piccoli, non si può competere con realtà particolarmente grandi. Il secondo: l’innovazione. In molti, oggi, ripetono “innovare, innovare, innovare”. Ma l’innovazione ha un costo che, in rete, può essere suddiviso e gestito al meglio. Un terzo elemento va tenuto in considerazione: con le reti d’impresa, i singoli imprenditori non perdono la propria autonomia e identità e, in più, possono ottenere ampi vantaggi sul piano lavorativo, fiscale e civilistico. Insomma, fare rete conviene. Non è la soluzione definitiva ma, se ben costruita e gestita, una rete d’impresa può aiutare i singoli imprenditori retisti a innovare, aggredire nuovi mercati e aumentare la propria competitività. Fondata nel 1989 dall'Avvocato Alfonso Palumbieri nella città di Barletta (BT) la Law Boutique Palumbieri è uno Studio Legale operante a Barletta e offre servizi di rappresentanza in giudizio, consulenza e assistenza legale.
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April 2022
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