Diamo un'occhiata agli elementi giuridici legati ai ristoranti in casa Chi ama cucinare avrà pensato, almeno una volta nella vita, di aprire un ristorante. Bene, l’evoluzione dei mercati e, in particolare, la sharing economy hanno portato anche nel nostro paese l’idea dell’home restaurant (letteralmente: ristorante a casa).
Alla base di questo fenomeno c’è il desiderio del padrone di casa di cucinare per estranei per una sera: questi, infatti, somministra cibi e bevande a persone che non conosce e che, con tutta probabilità, non si conoscono tra loro. Spiegati questi aspetti è il momento di analizzare gli elementi giuridici posti alla base di questo tipo di attività. Partiamo da un appunto tutt’altro che irrilevante: in Italia la situazione è particolarmente complessa, infatti nel nostro ordinamento vi è ancora un vuoto normativo che ha portato a scontri particolarmente accesi. Da un lato i ristoratori si lamentano perché gli home restaurant, in sostanza, somministrano cibi e bevande senza le necessarie autorizzazioni e senza essere sottoposti ai normali controlli. Dall’altro lato chi intende sfruttare questa opportunità lamenta la mancanza di regole e, quindi, l’impossibilità di investire seriamente. In attesa delle nuove norme, non ci resta che fare chiarezza e vedere sui passaggi essenziali per avviare, oggi, un home restaurant:
16/1/2018 Commissione UE: ecco le novità in materia di etichettatura degli allergeni e QUIDRead Now Il Ministero della Salute ha da poco pubblicato sul suo sito due comunicazioni. Quella del 13 luglio 2017 e quella del 21 novembre 2017. La prima riguardante le modalità per informare i consumatori sulla presenza negli alimenti di sostanze o prodotti che provocano allergie o intolleranze e la seconda sulle informazioni sulla quantità degli ingredienti.
La prima comunicazione, in particolare, definisce nuovi requisiti i materia di etichettatura degli allergeni. In particolare, questa stabilisce che gli ingredienti prodotti da cereali e contenenti glutine debbano essere evidenziati con una dichiarazione contenente un riferimento chiaro e specifico al cereale. La parola <<glutine>> potrà essere aggiunta volontariamente. Nel caso di alimenti per i quali non è richiesto l’elenco degli ingredienti ma che sono prodotti anche tramite l’utilizzo di prodotti che possono causare allergie o intolleranze, invece, è necessario evidenziare la presenza di allergeni. L’informazione al consumatore circa gli ingredienti può essere fornite tramite ogni tecnica di comunicazione: etichetta, altri materiali di accompagnamento, strumenti della tecnologia e comunicazione verbale. La seconda comunicazione, invece, ha lo scopo di fornire orientamenti per imprese e autorità nazionali circa l’applicazione del principio della dichiarazione della quantità degli ingredienti. In particolare, l’obbligo di indicare il QUID, come noto, non si applica agli alimenti che comprendono un solo ingrediente. Il QUID, inoltre, non è obbligatorio nei casi previsti dall’allegato VIII del regolamento e nel caso degli alimenti non preimballati a meno che gli stati non abbiamo adottato specifiche misure nazionali. Il QUID è invece richiesto nel caso degli ingredienti utilizzati nella fabbricazione o nelle preparazione di un alimento quando tale ingrediente o categoria di ingredienti: a) figura nella denominazione dell’alimento o è generalmente associato a tale denominazione dal consumatore; b) è evidenziato nell’etichettatura mediante parole, immagini o una rappresentazione grafica; c) è essenziale per caratterizzare un alimento e distinguerlo dai prodotti con i quali potrebbe essere confuso a causa della sua denominazione o del suo aspetto. Infine il QUID è richiesto quando il consumatore generalmente associa un ingrediente o una categoria di ingredienti alla denominazione dell’alimento. Inoltre, nella indicazione del QUID, a percentuale di carne presente, ad esempio, nel salame, deve essere indicata con un’indicazione basata sul peso della carne utilizzata per preparare 100g di salame. L’acqua aggiunta e gli ingredienti volatili devono essere indicati in funzione del loro peso nel prodotto finito. Tale disposizione non trova applicazione nel caso in cui la quantità di acqua aggiunta non sia superiore al 5 % del prodotto finito. Il 2018 è appena cominciato ed è, quindi, il momento di presentare le principali novità normative nel settore alimentare.
Le principali rivoluzioni, infatti, saranno due: novel food e etichettatura. Novel Food: insetti a tavola A partire da questo mese sarà possibile commercializzare insetti commestibili nel nostro paese secondo le norme del Regolamento sui Novel Food. Questa novità potrebbe anche rappresentare un’interessante forma di investimento. Al momento, tuttavia, mancano le norme nazionali volte a definire i protocolli di allevamento e trasformazione quindi bisognerà ancora attendere. L’uso degli insetti a tavola è particolarmente diffuso in Africa, Asia e nelle Americhe. Al momento sono considerate commestibili circa 1.400 specie. Si tratta di una fonte proteica a basso costo e a basso impatto ambientale. Etichettatura Altro importante elemento di novità è quello riguardante l’etichettatura dei prodotti alimentari. In particolare, da febbraio diventerà obbligatoria l’etichettatura di origine per pasta, riso, pomodoro e suoi derivati. In assenza di norme specifiche bisogna ricorrere all’interpretazione delle regole esistenti Il mondo del diritto associato all’informatica, in questo periodo, si è spesso interrogato circa gli investimenti effettuati in criptovalute. Può sembrare strano parlare di investimenti in una valuta ma basti pensare che il bitcoin, che in questo preciso istante ha un valore di € 11.397, a gennaio 2017 aveva un valore di € 700. In molti, dunque, hanno utilizzato questa criptovaluta per generare delle plusvalenze.
Bitcoin e evasione fiscale Spesso si pensa alle criptovalute come uno strumento particolarmente idoneo all’evasione fiscale. E’ particolarmente diffusa, infatti, l’idea per la quale le transazioni effettuate tramite bitcoin non siano rintracciabili. Questa idea deriva, con tutta probabilità, dai primissimi utilizzi fatti del bitcoin e dalle conseguenze per i loro fondatori. Di questo, tuttavia, parleremo nel prossimo articolo in cui sposteremo il focus sulla configurabilità del reato di truffa aggravata. Lo scopo di questo post, infatti, è quello di rispondere a questa domanda: quali sono le regole applicabili ai guadagni effettuati grazie a criptovalute quali bitcoin, litecoin e ethereum? Il vuoto normativo In primo luogo è importante precisare che non esiste una norma ad hoc quindi tutto viene rimesso alla interpretazione delle norme esistenti. Al momento, infatti, l’unico elemento normativo degno di nota è rinvenibile nel d.lgs 90/2017 che ha introdotto nel nostro ordinamento la definizione di valute virtuali e di prestatori di servizi relativi all’uso di queste. La definizione in commento, di cui all’art. 1 del d.lgs menzionato e attuativo della Direttiva UE 2015/859, però, non può essere d’aiuto nel rispondere alla nostra domanda. Un appunto: l’Italia è stata la prima ad adottare la IV Direttiva antiriciclaggio ma, a differenza degli altri paesi europei, non ha avviato una seria ricerca di soluzioni normative volte alla regolamentazione delle criptovalute. In linea generale, dunque, è opportuno specificare che, nel mondo finanziario, la tassazione riguarda la plusvalenza generata dalla cessione ad un prezzo maggiore a quello di acquisto. Quindi, per comprendere se tali norme siano applicabili alle criptovalute occorre individuare con precisione il campo d’azione delle stesse. L’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate L’Agenzia delle Entrate ha paragonato, con la risoluzione 73E/2018, le criptovalute alle valute estere. In linea generale, quindi, gli scambi rilevanti con conseguenti guadagni di tipo speculativo, potrebbero generare plusvalenze da dichiarare nella sezione redditi diversi. Tuttavia l’Agenzia delle Entrate sembra aver escluso tale ipotesi sostenendo che le operazioni in commento non possano mai essere considerate speculative. L’interpretazione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea Diversa interpretazione, invece, è stata data dalla CGEU con la sentenza C-264/2015. Questa, in particolare, ha escluso l’assimilazione alle valute estere avvicinando le criptovalute ai tradizionali sistemi di pagamento. Purtroppo anche l’interpretazione delle norme esistenti non aiuta a chiarire completamente la situazione pur dovendosi dare, per il momento, maggior rilievo alla interpretazione della Agenzia delle Entrate che, come detto, esclude la tassazione. Il consiglio, in ogni caso, è sempre quello di seguire le indicazioni di un esperto del settore che potrà valutare, caso per caso, il comportamento da adottare. La Corte di Giustizia ha deciso: "il servizio Uber non è soltanto un servizio d’intermediazione” Ormai in moltissimi utilizzano o hanno utilizzato il servizio Uber. In ogni caso, per chi non lo conoscesse ancora, è meglio precisare che questo si occupa di mettere in contatto i clienti con conducenti non professionisti. Ebbene, la Corte di Giustizia UE, interpellata da un giudice spagnolo a seguito di un ricorso proposto dell’associazione di conducenti di taxi denominata “Taxi Elite” di Barcellona, ha ritenuto che, nel caso di Uber, non trovino applicazioni né la libera prestazione dei servizi nell'Ue e neppure la direttiva sul commercio elettronico, che avrebbero svincolato il colosso americano dalla regolamentazione nazionale sui trasporti. In particolare, la Corte ha stabilito che tale servizio “non è soltanto un servizio d’intermediazione” ma “rientra nell’ambito dei servizi nel settore dei trasporti” e “gli Stati membri possono di conseguenza disciplinarne le condizioni di prestazione”. I conducenti, in particolare, accusavano Uber di “pratiche ingannevoli e atti di concorrenza sleale”.
Ebbene, con la sentenza in commento, la Corte ha evidenziato che “un servizio d’intermediazione, avente ad oggetto la messa in contatto, mediante un’applicazione per smartphone e dietro retribuzione, di conducenti non professionisti utilizzatori del proprio veicolo con persone che desiderano effettuare uno spostamento nell’area urbana, deve essere considerato indissolubilmente legato a un servizio di trasporto e rientrante, pertanto, nella qualificazione di ‘servizio nel settore dei trasporti’, ai sensi del diritto dell’Unione”. La Corte ha concluso che, sulla base del riparto delle competenze tra Unione Europea e Stati membri, spetta a questi disciplinare le condizioni di prestazione di siffatti servizi nel rispetto delle norme generali del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Sul punto è intervenuta anche la Food and Drug Administration statunitense Più o meno tutti sanno che la maionese è una salsa e che i suoi ingredienti sono tuorlo d’uovo, aceto e olio. Ebbene, può esisterne una versione vegana? La Food and Drug Administration è intervenuta sul punto imponendo alla startup Hampton Creek di eliminare ogni riferimento alla salsa dal prodotto commercializzato come “Just Mayo”. In particolare, la FDA ha comunicato, in una nota inviata all’azienda, che “secondo gli standard di identificazione della maionese, l’uovo è un ingrediente necessario. Stando alle informazioni riportate sull’etichetta, il prodotto in questione non contiene uova. Abbiamo inoltre notato che la Just Mayo contiene ingredienti addizionali che non sono consentiti dalla ricetta standard, come amido modificato, proteine di piselli e beta-carotene usato per simulare il colore della salsa con uova. Si evince, dunque, che il prodotto non è conforme con gli standard della maionese”. Dopo la decisione della Corte di Giustizia già analizzata qui, dunque, anche la FDA statunitense si è pronunciata: i prodotti vegani simili a quelli tradizionali ma privi di ingredienti fondamentali e tradizionalmente presenti non possono riportare, in alcun modo, riferimenti all’alimento originale.
L’OMS ha pubblicato le linee guida riguardanti l’uso degli antibiotici negli animali di allevamento sani.
Nel rapporto “Use of medically important antimicrobials in food-producing animals” l’Organizzazione mondiale della sanità raccomanda di smettere di utilizzare antibiotici in modo regolare per promuovere la crescita e prevenire la malattia negli animali sani. Le raccomandazioni in questione, in particolare, sono sviluppate sulla base di una revisione pubblicata su The Lancet. Tale revisione, in particolare, ha rilevato che la limitazione dell’uso di antibiotici negli animali ha ridotto fino al 39% la presenza di batteri resistenti agli antibiotici presenti negli stessi animali. In sostanza, agli animali sani dovrebbero essere somministrati solo quegli antibiotici utili a prevenire le malattie in caso di diagnosi in altri animali dello stesso allevamento, gregge o popolazione di pesci. Tali antibiotici, inoltre, dovrebbero essere accuratamente selezionati con il fine di individuarne quelli più efficaci e con minor rischio per curare la specifica infezione o malattia. Stando a quanto emerso dal V Rapporto Agromafie elaborato da Euripses e dall'Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, il volume d'affari delle agromafie lo scorso anno è salito a 21,8 miliardi di euro con un aumento del 30% rispetto al 2015. Numeri impietosi e in continua crescita che necessitano di un approfondimento. Il consumatore, infatti, deve assumere consapevolezza di questo fenomeno per poter riconoscere, ad esempio, i prodotti e i ristoranti “sani” e distinguerli da quelli, invece, da evitare.
L’agroalimentare, infatti, è sempre stato un terreno privilegiato di investimento anche per la malavita che oggi, in questo settore, cerca un modo per riutilizzare i capitali derivanti da attività illecite. Cos’è l’agromafia? Si tratta di attività della criminalità organizzata che coinvolgono l’intera filiera agroalimentare. In questo campo, infatti, la mafia investe denaro ottenuto dalle attività illecite in settori quali ristorazione, turismo agricolo e grande distribuzione coprendo l’intero ciclo di produzione, trasformazione e vendita dei prodotti alimentari. Le mafie, quindi, cercano nell’agroalimentare nuovi sbocchi di investimento. In particolare, due ambiti sono rilevanti sotto questo profilo: l’import-export di prodotti agroalimentari sottratti alle norme circa l’indicazione d’origine e tracciabilità (falso made in Italy) e la ristorazione. Il fenomeno del “falso made in Italy” consiste nella vendita di prodotti alimentari con etichetta o altri segni distintivi che richiamano una falsa origine italiana del prodotto. In sostanza: l’etichetta è italiana ma il prodotto no. Tale fenomeno, diffuso in tutto il mondo, è spesso riconducibile proprio alle agromafie. Queste etichettano come italiani alcuni prodotti di bassa qualità provenienti dall’estero e li immettono nel mercato italiano o estero a prezzi, ovviamente, particolarmente elevati. Il fenomeno, inutile dirlo, è molto pericoloso per i consumatori che, fidandosi dell’etichetta che, ad esempio, riporta denominazioni tipicamente italiane spesso associate al tricolore, credono di acquistare un prodotto genuino. A rimetterci, oltre al consumatore, sono anche le aziende italiane: un prodotto su due all’estero è un falso made in Italy per un giro d’affari che, complessivamente, nel 2015 ha raggiunto il valore di 36,8 miliardi di euro. Basti dire che, nei primi 7 mesi del 2015, la guardia di Finanza aveva sequestrato in Italia ben 160 tonnellate di cibi contraffatti. Almeno nella nostra nazione un modo per evitare di acquistare prodotti alimentari contraffatti è leggere con estrema attenzione l’etichetta del prodotto che state acquistando: all’interno, infatti, troverete tutte le informazioni utili ad evitare un simile errore. Per informazioni su come leggere l’etichetta, potete leggere un mio precedente articolo. Un esempio tipico, sotto questo profilo, è quello relativo al rinomato pomodoro San Marzano DOP: recentemente Nicholas Blechman, giornalista del New York Times, ha segnalato che negli Stati Uniti sono particolarmente diffuse confezioni di prodotti a base di pomodori di origine americana su cui, però, campeggia il nome “San Marzano”. La criminalità organizzata, tuttavia, è penetrata sempre maggiormente nell’economia legale investendo, tra gli altri, nel settore della ristorazione. Il business della ristorazione permette anche il riciclaggio di denaro derivante dalle attività illecite. A sottolinearlo è il Rapporto Agromafie sopra citato il quale ha evidenziato come tale sistema si attui tramite l’acquisizione e la gestione diretta e indiretta degli esercizi ristorativi. Stando a quanto riportato dal rapporto Coldiretti Euripses già nel 2015, nel nostro Paese i ristoranti nelle mani della criminalità organizzata erano almeno cinquemila. Insomma, non bisogna credere che il settore agroalimentare sia sempre “intonso”, privo di ogni contaminazione. Però due consigli possono essere utili. Ai consumatori: leggete le etichette fino nel dettaglio e se qualche informazione manca cercate anche online. Agli imprenditori: ponete la massima attenzione nell’etichettatura dei vostri prodotti anche sfruttando le informazioni facoltative e utilizzate in maniera efficace la comunicazione online e offline. Il Tribunale di Mantova ha deciso di impedire la pubblicazione di nuove foto e cancellare quelle già pubblicate Quante volte vediamo, sui social network e soprattutto su Facebook, genitori pubblicare foto dei loro figli? Si è sempre detto che queste foto possano, in qualche modo danneggiare il minore ma, in questi giorni, sul tema è intervenuta persino una sentenza del Tribunale di Mantova.
In particolare, stando a quanto sostenuto dal giudice «l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi». Il rischio starebbe nella «diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate». I pericoli, in effetti possono essere molti e la sentenza, per evitarli, ha stabilito che, da ora in poi, per pubblicare una foto sarà necessario il consenso di entrambi i genitori. In particolare, il caso prende origine dalla richiesta presentata da un padre separato di due bambini (tre anni e mezzo la più grande, un anno e mezzo il più piccolo). L’uomo, infatti, aveva chiesto di rivedere le condizioni della separazione, con particolare riferimento all’affido condiviso e alla residenza dei bambini con la donna. Gli accordi, infatti, prevedevano il divieto per la moglie di pubblicare immagini e l’obbligo di rimuovere quelle già online. Dopo la pubblicazione di nuove foto, quindi, è intervenuto il giudice di Mantova. Questo, pur sostenendo che non sussistessero i presupporti per la revisione degli accordi richiesta dal padre, ha ritenuto che il comportamento della madre violasse la tutela dell’immagine (articolo 10 c.c.) e la tutela della riservatezza dei dati personali prevista nel Testo unico sulla privacy (decreto legislativo 196 del 2003) e nella Convenzione di New York. Questa, in particolare, stabilisce che “nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione’ e che ‘il fanciullo ha diritto alla protezione della legge contro tali interferenze o tali affronti’”. Il Giudice Mauro Bernardi, inoltre, cita altre norme tra cui il regolamento europeo in materia di dati personali che entrerà in vigore il prossimo 25 maggio e secondo il quale “l’immagine fotografica dei figli costituisce dato personale” e “la sua diffusione una interferenza nella vita privata”. Il Giudice, dunque, ha deciso di impedire ogni pubblicazione e rimuovere i contenuti già pubblicati. La Corte di Cassazione ha stabilito che le chat potranno essere prodotte in giudizio solo tramite lo smartphone. In questo articolo pubblicato qualche giorno fa vi abbiamo parlato della possibilità di utilizzare le chat di Whatsapp come prova in giudizio. Alla fine dell’articolo, in effetti, avevamo espresso qualche dubbio che, oggi, trova riscontro in una nuova sentenza della Corte di Cassazione.
Ebbene, la sentenza in questione riguarda le modalità di acquisizione di una conversazione Whatsapp come prova, nel caso specifico, in un processo penale. La Corte ha stabilito, con la sentenza numero 49016/2017 che l’unico modo idoneo è l’acquisizione anche del supporto telematico o figurativo. In sostanza, è necessario produrre in giudizio anche lo smartphone. L’osservazione della corte parte da un presupposto fondamentale: la registrazione delle conversazioni su Whatsapp è, ormai, rappresentazione di un fatto storico del quale è ovviamente possibile disporre a fini probatori. La prova in questione è una prova documentale e la sua produzione in giudizio è giustificata anche dall’art. 234 del codice di procedura penale. Tale articolo consente di acquisire documenti che rappresentano fatti, persone o cose attraverso varie fonti: fotografia, cinematografia, fonografia o qualsiasi altro mezzo. La trascrizione, tuttavia, si limita a riprodurre il contenuto della prova documentale con la conseguenza che non è, da sola, sufficiente ma vi è ulteriormente necessità della produzione del supporto che la contiene. In sostanza, la sola stampa del pdf o dello screenshot di una conversazione Whatsapp non è sufficiente: questa semplicemente riproduce un contenuto che, però, per poter essere ritenuto valido, deve poter essere visionato anche sullo smartphone. A ben vedere, in effetti, la conversazione Whatsapp non può essere validamente dedotta in alcun altro modo. Se, ad esempio, nel caso di uno stato facebook pubblicato senza privacy possiamo sempre utilizzare un link specifico (anche nella sua versione cache), tanto non possiamo fare per le conversazioni Whatsapp. Questo causa una rilevante incertezza circa la effettiva valenza probatoria della chat che può essere superata solo ed esclusivamente tramite la produzione in giudizio dello stesso smartphone. Qualche giorno fa vi avevamo parlato della ritenuta di acconto del 21% sui canoni degli affitti turistici. Ebbene il Tar del Lazio, con ordinanza 5442/2017, ha respinto l’istanza di Airbnb che aveva chiesto di annullare il relativo provvedimento.
Il giudice, infatti, ha bocciato le argomentazioni dell’azienda per le seguenti motivazioni: 1) i denunciati effetti distorsivi della concorrenza, derivanti dalla imposizione degli obblighi di versamento della ritenuta in esame, sono, per quanto riguarda il rischio di perdita di clientela a favore di altri concorrenti, meramente eventuali. In questo punto il TAR ha evidenziato che, in realtà, Airbnb potrebbe, solo in via eventuale, subire un danno dal versamento della ritenuta. Nessuna certezza, infatti, può ritenersi sussistente sul punto. 2) per quanto riguarda inoltre gli oneri di riconversione e riorganizzazione imprenditoriale, ai fini di ottemperare alle misure previste dal provvedimento impugnato, essi non sono stati esattamente quantificati e, presumibilmente, non sono di entità tale da pregiudicare la competitività dell'azienda, considerato il suo volume d'affari in Italia, come indicato in ricorso. Nel secondo punto il Giudice ha evidenziato che, pur dovendo Airbnb sostenere delle spese per riorganizzare l’azienda al fine di adempiere all’obbligo di versamento della ritenuta, tali spese non possono in alcun modo pregiudicare la competitività dell’azienda, specie se si considera il suo volume di affari in Italia. 3) le misure attinenti agli obblighi di versamento della ritenuta non si palesano discriminatorie laddove esse ragionevolmente si applicano solo agli intermediari che intervengono nel pagamento del canone di locazione. In questo punto il TAR ha sottolineato che le misure non possono essere ritenute discriminatorie: queste si applicano, infatti, solo a quegli intermediari che, in qualche modo intervengono nel pagamento del canone. 4) Ritenuto infine che, nella comparazione tra i diversi interessi pubblici e privati coinvolti, appare comunque prevalente l'interesse pubblico al mantenimento degli effetti del provvedimento in esame, al quale peraltro gli altri operatori del mercato si sono già adeguati, fermo restando che l'amministrazione potrà, nella sua discrezionalità, valutare l'opportunità di concedere alla parte ricorrente un breve termine per effettuare gli adempimenti e i pagamenti in scadenza alla data del 16 ottobre 2017, che la parte ricorrente ha dichiarato di non aver assolto in considerazione delle aspettative legate alla presente vicenda giudiziaria. Infine, il Giudice ha ammesso la possibilità, per l’amministrazione, di concedere ad Airbnb un periodo di tempo utile ad adeguarsi alla norma. La società, infatti, non lo aveva fatto precedentemente proprio in attesa della decisione qui commentata. L’origine dei pomodori con cui vengono prodotti concentrati, passati e salse è sempre stata al centro delle discussioni. Da oggi le aziende dovranno indicare anche questa informazione in etichetta specificando dove il pomodoro è stato coltivato e trasformato.
La norma, entrata in vigore dopo la firma del decreto interministeriale dei ministri Martina (politiche Agricole) e Calenda (sviluppo economico), introduce la sperimentazione per due anni dell’etichettatura d’origine. La medesima modalità è stata utilizzata per latte e derivati, riso e pasta. Le aziende avranno, comunque, un periodo transitorio finalizzato all’adeguamento al nuovo sistema e, quindi, alla predisposizione delle nuove etichette e allo smaltimento dei prodotti già etichettati. La norma che, come le altre, anticipa, in sostanza, gli effetti dell’art. 26 par. 3 del reg UE n. 1169/2011, si applica a tutti i derivati: conserve, concentrato, sughi e salse composti per almeno il 50% da derivati del pomodoro. Le confezioni di questi alimenti prodotti in Italia recheranno in etichetta l’indicazione del Paese di coltivazione del pomodoro e quello del Paese di trasformazione dello stesso. Se le operazioni avvengono interamente in Italia potrà essere utilizzata la dicitura “Origine del pomodoro: Italia” mentre se avvengono in più Paesi la dicitura sarà “Paesi UE e NON UE”. Le indicazioni, inoltre, dovranno essere chiaramente leggibili e indelebili e saranno apposte in etichetta in un punto evidente e nello stesso campo visivo. Dopo il blocco delle importazioni è arrivato il via libera del Ministero della Sanità cinese Lo scorso settembre Wu Jing-chun, vicedirettore del Dipartimento per i Rapporti con l’Unione Europea del Ministero del Commercio di Pechino, aveva annunciato lo stop delle importazioni del gorgonzola e degli altri formaggi erborinati in Cina. Il dirigente, durante un incontro con la stampa all’Ambasciata italiana di Pechino, aveva spiegato che la misura non nascondeva un problema politico ma che la Repubblica Popolare non aveva ancora dato piena attuazione ai regolamenti interni relativi alle procedure di importazione.
Dopo alcune settimane di controlli da parte delle competenti autorità cinesi, la situazione si è sbloccata permettendo nuovamente l’ingresso dei prodotti. La Cina, dunque, ricomincerà ad importare i formaggi italiani erborinati anche grazie al lavoro del Ministero della Sanità cinese che ha, peraltro, confermato la salubrità dei prodotti nostrani nonostante questi superino i limiti di fermenti e lieviti previsti dalla normativa cinese. Ad essere maggiormente colpite dal provvedimento erano state Italia e Francia che, oggi, lavorano insieme ad un incontro tra delegazioni di imprenditori e autorità italiane, francesi e cinesi al fine di illustrare i criteri di sicurezza che l’industria casearia garantisce sui formaggi erborinati. Tra il 2015 e il 2016 le vendite di formaggi italiani sono aumentate del 42% e nei primi 7 mesi del 2017 c’è stato un aumento del 32% rispetto allo stesso periodo del 2016. depositata alla Camera una proposta di legge per mettere fine alla pratica di inviare bollette con una cadenza di 28 giorni ,Le tanto discusse bollette telefoniche a 28 giorni potrebbero essere al capolinea. E’ stata, infatti, depositata alla Camera una proposta di legge dalla deputata Alessia Morani (PD) “per mettere fine alla pratica, adottata da alcuni operatori di telefonia e pay tv, di inviare bollette con una cadenza di 28 giorni”.
La proposta di legge in questione, nelle parole della sua firmataria, "introduce l'obbligo della fatturazione dei servizi su base mensile; dispone un irrobustimento dei poteri di vigilanza da parte delle competenti Autorità; un aumento delle sanzioni da queste ultime comminabili e la restituzione delle somme indebitamente percepite da parte degli operatori in caso di violazione dell'obbligo di cadenza mensile". La proposta, inoltre, limita "la possibilità di modificare, da parte delle aziende di comunicazione elettronica, in modo unilaterale le condizioni contrattuali". Tali modifiche "saranno ammesse solo con un giustificato motivo obiettivo". In aggiunta a quanto appena detto, la proposta prevede, con chiaro intento deterrente, un indennizzo forfettario, non inferiore ad euro 50, che l’operatore sanzionato è tenuto a corrispondere al consumatore interessato dalla illegittima fatturazione. Il divieto di cessione gratuita previsto dal Decreto Legge Mezzogiorno E’ stato approvato alla Camera il Decreto Legge Mezzogiorno il quale definisce i nuovi requisiti per le buste di spessore inferiore ai 15 micron. Parliamo, ad esempio, dei sacchetti shopper utilizzati per la spesa, di quelli che vengono messi a disposizione per imbustare frutta e verdura sfusi o anche pesce, carne, prodotti di gastronomia e di forno.
Tutti questi sacchetti, a partire dall’inizio del 2018, dovranno essere composti, almeno per il 40% di materia prima proveniente da fonte naturale e, quindi, biodegradabili e compostabili. La percentuale di materia prima naturale presente nei sacchetti, tuttavia, è destinata a salire: 50% nel 2020 e 60% nel 2021. Tutto ciò, tuttavia, ha un costo che, come spesso accade, ricade sul consumatore. I sacchetti, infatti, non saranno più disponibili gratuitamente ma tutti verranno ceduti a pagamento. Il Decreto, infatti, vieta la cessione gratuita. Il prezzo sarà simile a quello che, ormai da qualche anno, viene applicato per le shopper acquistabili in cassa: 10 centesimi circa. Con la sentenza in questione la Suprema Corte ha dichiarato l’attendibilità del riconoscimento avvenuto tramite il social network di Mark Zuckerberg Uno degli argomenti più discussi circa il rapporto tra utilizzo dei social network e diritto è quello relativo alla possibilità di riconoscere un imputato tramite foto e informazioni presenti sul profilo online. Qual è, infatti, il limite tra privacy e esigenza di giustizia? Quando un soggetto può esere riconosciuto tramite un profilo social? E, in giuridichese, quali sono i limiti formali imposti dagli artt. 213 e 214 c.p.p.?
Ormai assistiamo da tempo alla contaminazione delle tradizionali pratiche investigative con le tecnologie moderne, tra cui proprio i social network. Vi avevamo, ad esempio, già parlato della possibilità di utilizzare il malware Trojan come strumento di indagine (qui: https://science.closeupengineering.it/malware-trojan-strumento-indagine/11227/) introdotto con la riforma Orlando. Quella novità, introdotta dal legislatore, viene, in questi giorni, affiancata da una decisione della Corte di Cassazione. In questo caso, però, al centro della sentenze c’è facebook e, in particolare, la possibilità di riconoscere un imputato tramite lo stesso social network. La sentenza in questione è la n. 45090/2017, con la quale la Suprema Corte ha accertato l’attendibilità del riconoscimento avvenuto tramite il social network di Mark Zuckerberg. Il ricorso in Cassazione, in particolare, era stato proposto proprio dall’imputato. Questo, condannato per concorso in rapina e porto d’armi, sosteneva non solo l’inattendibilità del riconoscimento attuato nelle modalità appena esposte ma, ulteriormente, riteneva che, in ogni caso, questo avrebbe dovuto essere seguito da un riconoscimento operato secondo le tradizionali modalità. Ebbene, la Corte, con la pronuncia sopra menzionata, ha rigettato il ricorso sostenendo la genuinità e attendibilità del riconoscimento effettuato dalla persona offesa, nonostante fosse avvenuto tramite Facebook. Cooperazione
Ho sempre pensato, per qualche assurdo motivo nato nella mia testa durante gli studi universitari, che fosse questa la parola-chiave per il futuro delle piccole imprese. D’altronde non si può negare che il momento economico e le sfide dei mercati sempre in evoluzione richiedano almeno una profonda riflessione sul tema. Per questo motivo ho sempre studiato, approfondito e messo in pratica il contratto di rete d’impresa. E ne voglio parlare, seppur brevemente, qui, con particolare focus sulla filiera agroalimentare. Cos’è una filiera ? Per filiera si intende quell’insieme dei settori produttivi e delle relative imprese coinvolti nella realizzazione di una determinata produzione. Insomma, nella definizione rientrano tutte quelle imprese che, ad esempio, curano la coltivazione, la trasformazione e la commercializzazione del prodotto agricolo. Come nasce il contratto di rete d’impresa? Il contratto di rete nasce con il decreto legge 5/2009 convertito dalla legge 33/2009. La normativa definisce il contratto di rete come “un accordo tra uno o più imprenditori, con lo scopo di accrescere la propria capacità innovativa e competitività sul mercato”. Cosa serve per stipulare un contratto di rete? In primo luogo è necessario un programma. Il programma comune di rete è uno strumento tramite il quale le imprese retiste indicano gli obiettivi che intendono raggiungere, le modalità tramite le quali raggiungerli e le regole vigenti nei rapporti tra gli imprenditori stessi. Elementi obbligatori del contratto sono: -Denominazione delle imprese aderenti: occorre, infatti, indicare tutti i dati utili all’identificazione delle imprese; -Obiettivi di innovazione e competitività: le reti d’impresa nascono per perseguire questi obiettivi, comunemente traducibili in R&D e/o costruzione di brand identity. Tali scopi vanno indicati anche nel contratto; -Durata del contratto; -Modalità di adesione di altri imprenditori; -Procedure decisionali delle imprese retiste Elementi facoltativi del contratto: -Fondo patrimoniale comune: è costituito dai contributi delle imprese partecipanti e dai beni acquistati dalla rete stessa; -Organo comune: è il soggetto incaricato di gestire le operazioni della rete e dare esecuzione al programma della stessa. Forma delle reti d’impresa Si distingue in rete soggetto e rete contratto. Nel primo caso parliamo di un vero e proprio soggetto giuridico, distinto dalle imprese retiste e autonomo. In questo caso è obbligatoria l’istituzione sia del fondo patrimoniale che dell’organo comune. Nel secondo caso, invece, parliamo di un contratto stipulato dalle imprese che, però, non istituisce un nuovo soggetto ma si limita a regolare i rapporti tra le imprese retiste. Questa è la forma maggiormente diffusa nel settore alimentare. Reti di impresa e agricoltura Nel settore agrifood le reti d’impresa non sono diffuse come dovrebbero. Un po’ perché un loro pieno riconoscimento è solo arrivato nel 2014 con la legge 91 (decreto competitività) e un po’ perché vi è sempre stata una certa resistenza all’aggregazione. Resistenza dovuta, principalmente, alla paura di perdere la propria identità. Una paura non totalmente ingiustificata che, però, deve fare i conti con due fattori. Il primo: il mercato. Oggi occorre essere competitivi, con un prodotto di qualità e/o un prezzo aggressivo. Da soli, specie se si è piccoli, non si può competere con realtà particolarmente grandi. Il secondo: l’innovazione. In molti, oggi, ripetono “innovare, innovare, innovare”. Ma l’innovazione ha un costo che, in rete, può essere suddiviso e gestito al meglio. Un terzo elemento va tenuto in considerazione: con le reti d’impresa, i singoli imprenditori non perdono la propria autonomia e identità e, in più, possono ottenere ampi vantaggi sul piano lavorativo, fiscale e civilistico. Insomma, fare rete conviene. Non è la soluzione definitiva ma, se ben costruita e gestita, una rete d’impresa può aiutare i singoli imprenditori retisti a innovare, aggredire nuovi mercati e aumentare la propria competitività. Fondata nel 1989 dall'Avvocato Alfonso Palumbieri nella città di Barletta (BT) la Law Boutique Palumbieri è uno Studio Legale operante a Barletta e offre servizi di rappresentanza in giudizio, consulenza e assistenza legale.
I Professionisti della Law Boutique Palumbieri operano sempre a stretto contatto con il Cliente garantendo chiarezza e tempestività in ogni operazione ed assistendolo in ogni momento, da oggi anche tramite servizio di consulenza in videoconferenza online. Il continuo aggiornamento degli Avvocati dello Studio Legale Palumbieri permette di offrire al cliente un servizio sempre preciso e completo in ogni settore di competenza, garantendo estrema affidabilità e professionalità. Letteralmente Law Boutique significa Boutique del Diritto. Abbiamo voluto così individuare il vero focus del nostro lavoro: mettere a disposizione dei Clienti la nostra professionalità al fine di tutelare i loro diritti, agevolare la loro crescita come persone e come imprenditori e, soprattutto, garantire un servizio fatto su misura, parametrato alle loro esigenze. Anche le chat possono fare piena prova in giudizio Ormai i mezzi di comunicazione digitali costituiscono il principale strumento tramite il quale ci rapportiamo. Sono entrati nella nostra quotidianità e, anche giuridicamente, hanno assunto rilievo assoluto.
In verità, la controversia circa la possibilità di utilizzare le chat di Whatsapp in giudizio è durata ben poco e qualche giorno fa ne abbiamo avuto conferma. Andiamo per gradi partendo dagli sms. La Suprema Corte, infatti, più volte si è pronunciata sulla questione. E’ possibile citare, ad esempio, l’ultima sentenza a riguardo: la pronuncia numero 5510 del 6 marzo 2017, tramite la quale la Corte ha ritenuto valida, come prova del tradimento del marito, proprio gli sms inviati all’amante, decidendo per l’addebito della separazione a carico dello stesso. Dagli SMS a whatsapp il passo è breve. Il Tribunale di Ravenna, infatti, ha posto alla base della sentenza 231/2017 proprio le chat della nota app di messaggistica. Nella fattispecie, il Tribunale, ha condannato una donna alla restituzione all’ex amante dei soldi che questo le aveva prestato per comprare una auto. La controversia, in particolare, verteva sulla qualificazione di tale trasferimento di somme di denaro. Proprio i messaggi inviati tramite Whatsapp hanno risolto l’arcano: la donna, infatti, in chat si era impegnata a restituire tutte le somme in rate mensili di €200 e offrendo servizi di pulizia domestica.Il Giudice ha, quindi, ritenuto che le somme non fossero state corrisposte come atto di liberalità condannando, come detto, la donna alla restituzione. Qualche dubbio. Non tutto, però, è chiaro. Ad esempio: a differenza degli stati e delle immagini pubblicati – senza restrizioni di privacy – tramite il social network Facebook, le chat di whatsapp non hanno un link pubblico, non hanno una versione chache rinvenibile e non possono essere rintracciate se non tramite uno schreenshot o una stampa della conversazione in PDF. Dunque, chi può “garantire” sulla provenienza della chat? Chi può assicurarci che non sia stata modificata o, comunque, creata artificialmente? Difficile rispondere a queste domande. Occorre attendere nuove decisioni in merito. Tutti gli aggiornamenti sulla rubrica “Diritto 2.0” di Close-Up Engineering. Approvato dal Consiglio dei ministri il decreto legislativo che reintroduce l'obbligo di indicare lo stabilimento di produzione o confezionamento in etichetta Il consiglio dei ministri ha licenziato, pochi giorni fa, un nuovo decreto che prevede l’obbligo di indicare lo stabilimento di produzione o confezionamento in etichetta. Si tratta, in realtà di un grande ritorno: l’obbligo, infatti, era stato abrogato dall’entrata in vigore del Regolamento UE 1169/2011 sulla etichettatura dei cibi. Il regolamento in questione prevede esclusivamente l’obbligo di indicare il responsabile legale del marchio ma non quello di indicare lo stabilimento di produzione o confezionamento, prevedendo, invece, questa informazione solo tra quelle facoltative. Per questo, l’Italia, ha stabilito la reintroduzione di tale obbligo al fine di facilitare la rintracciabilità del prodotto e fornire una maggiore garanzia al consumatore.
Il decreto prevede, inoltre, un periodo transitorio di 180 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale per lo smaltimento delle etichette e esaurimento dei prodotti già etichettati e messi in commercio. COMUNICATO STAMPA MIPAAF, APPROVATO DECRETO PER L’OBBLIGO DI INDICAZIONE DELLO STABILIMENTO IN ETICHETTA Il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali rende noto che il Consiglio dei Ministri ha approvato questa mattina in via definitiva il decreto legislativo che reintroduce l'obbligo di indicare lo stabilimento di produzione o confezionamento in etichetta. Il provvedimento prevede un periodo transitorio di 180 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, per lo smaltimento delle etichette già stampate, e fino a esaurimento dei prodotti etichettati prima dell'entrata in vigore del decreto ma già immessi in commercio. L'obbligo era già sancito dalla legge italiana, ma è stato abrogato in seguito al riordino della normativa europea in materia di etichettatura alimentare. L'Italia ha stabilito la sua reintroduzione al fine di garantire, oltre che una corretta e completa informazione al consumatore, una migliore e immediata rintracciabilità degli alimenti da parte degli organi di controllo e, di conseguenza, una più efficace tutela della salute. La legge di delega affida la competenza per il controllo del rispetto della norma e l'applicazione delle eventuali sanzioni all'Ispettorato repressione frodi (ICQRF). "È un impegno mantenuto - ha commentato il Ministro Martina - nei confronti dei consumatori e delle moltissime aziende che hanno chiesto di ripristinare l'obbligo di indicare lo stabilimento. In questi mesi, infatti, sono state tante le imprese che hanno continuato a dare ai cittadini questa importante informazione. Continuiamo il lavoro per rendere sempre più chiara e trasparente l'etichetta degli alimenti, perché crediamo sia una chiave fondamentale di competitività e sia utile per la migliore tutela dei consumatori. I recenti casi di allarme sanitario ci ricordano quanto sia cruciale proseguire questo percorso soprattutto a livello europeo. L'Italia si pone ancora una volta all'avanguardia". Ufficio Stampa Dal Cdm il via allo schema di decreto legislativo con sanzioni dino a € 150.000. Le norme sull’etichettatura dei prodotti sono dettate dal regolamento europeo n. 1169/2011 e dalla direttiva 2011/91/UE. Mancava, almeno in parte, un nuovo sistema sanzionatorio e, per questo, l'8 settembre il Consiglio dei ministri ha approvato, in prima lettura, un decreto legislativo. Tale decreto, attuando le norme europee sulla disciplina sanzionatoria per la violazione delle informazioni sugli alimenti ai consumatori, ha stabilito che ad irrogare le sanzioni sarà l’Ispettorato centrale tutela della qualità e repressione frodi (Icqrf) del Ministero delle politiche agricole.
Le sanzioni sono divise in cinque scaglioni proporzionali alla gravità delle sanzioni che prevedono una sanzione amministrativa non inferiore a 150 euro e non superiore a 150.000 euro, con variabili legati alla gravità della sanzione. Il legislatore, con queste norme, intende tutelare la trasparenza. Per questo motivo, ad esempio, ha reintrodotto l’obbligo di indicare la sede dello stabilimento per i prodotti realizzati in Italia e destinati alla vendita nel nostro Paese. Tale obbligo ricade sia sugli alimenti trasformati preimballati destinati al consumatore finale che sugli alimenti trasformati non finalizzati all’immediato consumo. Di seguito Il Comunicato del Consiglio dei ministri Sanzioni per la violazione di norme a tutela dei consumatori di prodotti alimentari Disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni del regolamento (UE) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, e l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del medesimo regolamento (UE) n. 1169/2011 e della direttiva 2011/91/UE, ai sensi dell’articolo 5 della legge 12 agosto 2016 n. 170 – legge di delegazione europea 2015 – (Presidenza del Consiglio, Ministero dello sviluppo economico, Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali e Ministero della salute – esame preliminare) Il decreto dispone un quadro sanzionatorio di riferimento unico per la violazione delle norme sulla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori e consentire un’applicazione uniforme delle sanzioni a livello nazionale. A questo scopo, si individua quale autorità amministrativa competente per l’irrogazione delle sanzioni il Dipartimento dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF) del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali. Trattandosi di violazioni connesse a obblighi informativi, sono state introdotte solo sanzioni di natura amministrativa, che prevedono il pagamento di una somma non inferiore a 150 euro e non superiore a 150.000 euro. Nell’ambito di tali limiti minimi e massimi sono stati individuati cinque scaglioni di diverso importo della sanzione, commisurati alla gravità della stessa. La tassa dovrà essere pagata a partire dal 16 ottobre da tutti gli intermediari degli affitti turistici A partire dal 16 ottobre le piattaforme di intermediazione degli affitti turistici, tra cui airbnb, dovranno cominciare a pagare la tassa del 21% inserita nella “manovrina” di correzione dei conti pubblici da 3 miliardi di euro. La piattaforma airbnb, in qualità di intermediaria degli affitti turistici, avrà l’obbligo di trattenere e versare all’Erario le imposte dovute dai proprietari di casa. La tassa, per la precisione, dovrà essere corrisposta da tutte le 20mila agenzie iscritte alla Federazione italiana degli agenti immobiliari professionali (F.i.a.i.p.).
Come funziona la nuova tassa? In sostanza, viene stabilita una cedolare secca del 21%, introdotta nel 2011 per i contratti di locazione a canone libero 4+4, anche per le locazioni brevi (quelle con durata non superiore ai 30 giorni). Airbnb diventerà sostituto d’imposta: la ritenuta dovrà, infatti, essere gestita direttamente dagli intermediari. Il portale, quindi, tratterrà l’importo al momento del pagamento per poi versarlo all’Erario. Le proteste di Airbnb La protesta di Airbnb non si è fatta attendere e, per il tramite di Alessandro Tommasi (Airbnb Italy) ha subito evidenziato il danno che la nuova tassa recherà non solo al portale quanto anche al turismo italiano. Grazie ad Airbnb, sostiene Tommasi, sono giunti in Italia circa 5 milioni e 856 mila turisti con una permanenza media di 3,7 notti a soggiorno. Tali numeri potrebbero subire dei cali. La protesta di airbnb, tuttavia, non si ferma a queste motivazioni ma riguarda anche i tempi di attuazione della disposizione: la legge è operativa da giugno 2017 e il 12 luglio l’Agenzia delle Entrate ha pubblicato una circolare con le indicazioni per adottare il sistema della cedolare secca, definendo la scadenza per i primi versamenti al 17 luglio. Tempi tanto stretti da costringere gli operatori, secondo airbnb e altri soggetti interessati, a non rispettare la legge. Per questo motivo, a inizio agosto, è arrivata la proroga: i versamenti dovranno essere effettuati a partire dal 16 ottobre utilizzando il codice tributo 1919 tramite il modello F24. Il versamento verrà effettuato entro il giorno 16 di ogni mese per le locazioni del mese precedente. Airbnb, inoltre, al fine di garantire la più totale trasparenza nella gestione dei versamenti, dovrà inviare una certificazione annuale indicante tutti gli importi pagati. Scopriamo insieme cosa c'è dietro il "bio" Ormai i prodotti biologici sono diventati parte integrante della nostra dieta e della nostra spesa quotidiana. Il mercato del biologico, infatti, vale, in Italia circa 2,14 miliardi di euro e il fatturato dei negozi bio raggiunge i 761 milioni di euro (dati ASSOBIO). Ma cosa si intende per “biologico”? Per trovare una prima definizione è necessario dare uno sguardo ai regolamenti emanati dall’Unione Europea. Nel 2007 è stato infatti diffuso il regolamento europeo n. 834/2007 che ha fornito la base per lo sviluppo sostenibile della produzione biologica. Questo documento definisce la “produzione biologica” come quel sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di produzione agroalimentare basato su alcuni elementi fondamentali quali:
Il regolamento 834/2007 può essere suddiviso in due parti: da un lato la parte contenente specifiche norme per le fasi della filiera del biologico e, dall’altro, quella relativa all’etichettatura dei prodotti bio. Con “filiera del biologico” si intende indicare l’insieme di aziende che creano, distribuiscono e commercializzano il prodotto biologico. L’attenzione, quindi, è posta sia sulla produzione e commercializzazione degli alimenti biologici sia sul come questi vengono presentati al consumatore in etichetta o in pubblicità. 1) La produzione biologica Gli scopi della produzione biologica non si limitano alla commercializzazione del prodotto ma tendono a perseguire obiettivi e principi ben più importanti. In particolare, è necessario evidenziare che la produzione biologica mira a stabilire un sistema di gestione sostenibile per l’agricoltura che possa rispettare i cicli naturali, contribuire ad un alto livello di diversità biologica, assicurare un impiego responsabile delle risorse naturali e favorire il benessere degli animali. La produzione biologica, infatti, si basa sui seguenti principi:
2) L’etichettatura dei prodotti bio Come detto, il regolamento 834/2007 prevede anche norme circa l’etichettatura, la pubblicità e i documenti commerciali dei prodotti biologici. In particolare, i produttori possono validamente utilizzare termini quali “bio” e “eco” solo quando i prodotti rispettano i principi elencati sopra. In tal caso, inoltre, tali termini possono essere adoperati non solo in un determinato paese ma nell’intera Unione Europea e in qualsiasi lingua comunitaria. I termini “bio” e “eco” possono essere usati nei seguenti casi:
L’UE ha, inoltre, previsto la possibilità di utilizzare uno specifico logo comunitario indicante i prodotti di origine biologica: tale logo può essere utilizzato nell’etichettatura, nella presentazione e nella pubblicità dei prodotti bio. Insieme al logo comunitario deve essere anche inserita un’indicazione del luogo in cui sono state coltivate le materie prime agricole che compongono il prodottotramite le diciture:
La decisione arriva al termine dell'istruttoria sulla riduzione dei periodi di rinnovo da 30 a 28 giorni Dal mese di settembre 2016 la Wind Telecomunicazioni S.p.a. aveva modificato il periodo di rinnovo delle proprie offerte da 30 giorni a 4 settimane comunicando che gli addebiti sarebbero avvenuti ogni 8 settimane anziché ogni 60 giorni. Inoltre, la stessa società aveva previsto, a carico di coloro che avessero esercitato il diritto di recesso ai sensi dell’art. 70, comma 4, cod. comm. elettr.:
a) l’addebito in un’unica soluzione del saldo delle rate residue a scadere per il prodotto nel caso di offerte abbinate a prodotti in rateizzazione (telefono o tablet o mobile Wi-Fi); b) per le altre opzioni, il pagamento del corrispettivo previsto per il recupero del costo del modem e/o dell’apparato denominato “Google Chromecast” dovuti in caso di cessazione anticipata per la violazione dei vincoli di durata pari rispettivamente a 24 e 30 mesi. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato è intervenuta e, a seguito dell'istruttoria, evidenziando la propria competenza a decidere della materia ai sensi dell’art. 27, comma 1 bis del Codice del consumo, ha ritenuto che la Wind, abbia sfruttato la propria posizione di supremazia per esercitare una pressione idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta e di comportamento del consumatore medio in relazione alla fruizione di servizi per i quali è stato richiesto, in corso di rapporto, un aumento di costo rispetto alla tariffa pattuita. L’Antitrust ha, quindi, irrogato a Wind una sanzione di 500.000 euro, per aver adottato pratiche commerciali scorrette in occasione della riduzione del periodo di rinnovo delle offerte di telefonia fissa sottoscritte dai propri clienti da 30 a 28 giorni. Qui il testo del provvedimento Impariamo a leggere questi preziosi 'ritagli di carta' L’etichetta è un insieme di informazioni utilissime per capire davvero cosa stiamo acquistando ma non sempre è di semplice lettura e interpretazione. Proviamo a capire le regole che sono alla base di ciò che è riportato su questi preziosi “ritagli di carta”. Ma cominciamo dalle basi. Che cosa è una etichetta alimentare? L’etichettatura di un prodotto alimentare viene definita dal Regolamento CE 1169/2011 (http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:304:0018:0063:it:PDF) il quale garantisce un elevato livello di protezione dei consumatori in materia di informazioni sugli alimenti e definisce i principi, i requisiti e le responsabilità che disciplinano le informazioni sugli alimenti e la loro etichettatura. https://pixabay.com/it/supermercato-ecommerce-spesa-market-2158692/ Cosa deve contenere una etichetta? Le informazioni in etichetta devono essere precise, chiare e facilmente comprensibili; devono essere apposte in zone della confezione alimentare che le renda molto visibili. L’etichetta deve obbligatoriamente indicare i seguenti elementi:
Le informazioni obbligatorie, sugli alimenti preimballati, devono apparire direttamente sull’imballaggio o su un’etichetta a esso apposta. Devono essere indelebili e, soprattutto, non devono indurre in errore:
https://www.pexels.com/photo/food-plate-nuts-peanuts-39345/ E’ previsto, infatti, che questi figurino nell’elenco degli ingredienti con un carattere diverso rispetto agli altri e con la chiara indicazione della denominazione della sostanza che provoca allergie e intolleranze. Non solo: occorre evidenziare che le diciture “contiene tracce di” o “prodotto in uno stabilimento dove si lavorano” potrebbero essere generiche. Il legislatore europeo, sotto questo profilo, sta lavorando con lo scopo di vietare tali diciture in favore della ben più chiara e semplice “può contenere”. L’etichetta, tuttavia, può essere utilizzata dal produttore anche per dare al prodotto maggior valore tramite ulteriori indicazioni nutrizionali e sulla salute. Per “indicazione nutrizionale” si intende qualunque indicazione che affermi, suggerisca o sottintenda che un alimento abbia particolari proprietà nutrizionali benefiche, dovute all’energia (valore calorico) che apporta,apporta a tasso ridotto o accresciuto o non apporta; e/o alle sostanze nutritive o di altro tipo che contiene, contiene in proporzioni ridotte o accresciute o non contiene. Il regolamento 1924/2006, a tal proposito, introduce il concetto di “claims”(tipico esempio di claim è “a basso contenuto calorico” o “ricco di proteine”) dando ai produttori dei criteri da rispettare per poter valorizzare l’alimento commercializzato senza, però, trarre in inganno il consumatore. Ad esempio[2]: Claim basso contenuto calorico Nei prodotti solidi Non più di 400 kcal/100g Nei prodotti liquidi Non più di 20 kcal/100 ml Claim Basso contenuto di grassi Nei prodotti solidi Non più di 3g/100g Nei prodotti liquidi Non più di 1,5g/100 ml Claim Senza grassi Nei prodotti solidi Non più di 0,5 g/100g Nei prodotti liquidi Non più di 0,5g/100 ml Claim Basso contenuto di zuccheri Nei prodotti solidi Non più di 5g/100g Nei prodotti liquidi Non più di 2,5g/100 ml Claim Senza zuccheri Nei prodotti solidi Non più di 0,5g/100g Nei prodotti liquidi Non più di 0,5g/100 ml Claim Fonte di fibre Nei prodotti solidi Almeno 3g/100g o Almeno 1,5 g/100 kcal Claim Alto contenuto di fibre Nei prodotti solidi Almeno 6g/100g o almeno 3g/100 kcal Claim Fonte di proteine Nei prodotti solidi Solo se almeno il 12 % del valore energetico dell'alimento è apportato da proteine Claim Alto contenuto di proteine Nei prodotti solidi solo se almeno il 12 % del valore energetico dell'alimento è apportato da proteine L’etichettatura di un prodotto alimentare, quindi, rappresenta il primo passo per permettere al consumatore di “mangiare e bere informato”. Saper leggere e interpretare l’etichetta, infatti, ci consente di prendere delle scelte consapevoli che possono aiutarci a rendere la nostra dieta più salutare e completa. [1] Operatore del settore alimentare è la persona fisica o giuridica responsabile di garantire il rispetto delle disposizioni della legislazione alimentare nell'impresa alimentare posta sotto il suo controllo. [2] Qui è possibile leggere l’intero regolamento e il relativo allegato. Articolo pubblicato su: http://www.cucinamancina.com
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April 2022
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